lunedì 6 maggio 2024

25 APRILE 2024













Giacomo Matteotti, morte di un antifascista

Nato a Fratta Polesine, presso Rovigo, nel 1885, Matteotti già nel 1907, dopo una laurea in giurisprudenza a Bologna, entra in contatto con diversi movimenti socialisti. Nella Grande Guerra non viene arruolato, in quanto unico figlio superstite di madre vedova: è però attivo contro il conflitto, tanto da essere mandato al confino nei monti presso Messina. Nel 1919 viene eletto deputato con i socialisti per la circoscrizione elettorale Ferrara-Rovigo, dove viene riconfermato nel 1921 e nel 1924. In Parlamento non perde occasione per denunciare le attività illegali dei fascisti, al potere dal 1922 in seguito alla marcia su Roma, e la repressione violenta del dissenso. A oltre novant’anni di distanza, è visto ancora oggi come uno dei massimi esempi dell’antifascismo italiano. 

È il 30 maggio del 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti firma, con un discorso alla Camera, la sua condanna a morte. Ne è consapevole perché finito di parlare, dopo aver denunciato pubblicamente l’uso sistematico della violenza a scopo intimidatorio usata dai fascisti per vincere le elezioni e contestato la validità del voto, dice ai colleghi:

«Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me»

Pochi giorni dopo, il 10 giugno, viene rapito a Roma. Sono da poco passate le quattro del pomeriggio e si sta recando a Montecitorio. Sotto casa, in lungotevere Arnaldo da Brescia, nel quartiere Flaminio, una squadra di cinque fascisti guidata da Amerigo Dumini lo preleva con la forza e lo carica in macchina (dove viene picchiato e accoltellato fino alla morte, per poi essere seppellito nel bosco della Quartarella, a 25 chilometri dalla Capitale). L’auto, una Lancia Lambda, viene fornita dal direttore del «Corriere Italiano» Filippo Filippelli.

L’assenza di Matteotti non giustificata in Parlamento non viene immediatamente notata, ma già il giorno dopo, l’11 giugno, la notizia della scomparsa appare sui giornali. 

Le prime indagini partono proprio dall’automobile e sono condotte da Mauro Del Giudice e Umberto Guglielmo Tancredi. In breve, tutti i rapitori sono identificati e arrestati, ma dietro diretto interesse del Duce, le indagini vengono fermate. I socialisti unitari vicini a Filippo Turati diramano un comunicato che accusa il governo.

Il corpo di Matteotti viene ritrovato solamente il 16 agosto del 1924 dal cane di un brigadiere in licenza, Ovidio Caratelli. Mussolini ordina al ministro degli Interni Luigi Federzoni di preparare imponenti funerali da tenersi però a Fratta Polesine, città natale di Matteotti, in modo da tenerli lontani dall’attenzione dell’opinione pubblica. La vedova Velia Matteotti scrive a Federzoni chiedendo che al funerale non fossero presenti esponenti del PNF (Partito Nazionale Fascista) e della Milizia.

Il 3 gennaio 1925, a ormai oltre sei mesi dal delitto, di fronte alla Camera dei deputati, Mussolini inizia un discorso in cui, inizialmente, nega ogni coinvolgimento nella morte, ma poi si assume personalmente la responsabilità dell’accaduto.

“Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere”, pronunciò il capo del fascismo in un discorso divenuto storico, che aprì la strada alla definitiva svolta dittatoriale dell’Italia verso il regime fascista.

A pesare sull’omicidio è il celebre discorso nel quale venivano denunciati i brogli e le violenze delle elezioni del regime. Ma Matteotti stava anche per presentare alla Camera un dossier riguardante le tangenti e le mazzette che la Sinclair Oil americana pagava al Duce e al Re per poter trivellare il suolo siciliano e per i suoi interessi sul suolo libico (sarebbero finite nelle tasche di altissimi esponenti del regime, tra cui anche il fratello di Mussolini, Arnaldo). E non è un caso che volesse rivelare l’illecito proprio in occasione della riapertura dell’Aula di Montecitorio il 10 giugno, il giorno in cui fu rapito e ucciso.

IL CASO DUMINI – Merita per gli autori una piccola divagazione la storia di Dumini che, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, lavora sotto falsa identità per le truppe d’occupazione americane, come autista e interprete. Arrestato per caso il 18 luglio 1945 a Piacenza, nei suoi confronti viene riaperto il processo per l’omicidio Matteotti. Riconosciuto colpevole di omicidio premeditato e condannato all’ergastolo il 4 aprile del 1947, dopo 6 anni è scarcerato per l’amnistia concessa dal Governo di Giuseppe Pella nel 1953, venendo graziato definitivamente nel 1956. Tornato libero, si iscrive al Movimento Sociale Italiano. Muore nel Natale del 1967, a 73 anni, presso l’ospedale San Camillo in seguito alla violenta scarica elettrica ricevuta accidentalmente nella propria abitazione mentre tentava di cambiare una lampadina nel suo studio.


Francesco Fiscaletti

Il 17 settembre 1943, Francesco Fiscaletti, nato a San Benedetto del Tronto il 23 settembre 1919, alto e slanciato, corpo di atleta, capigliatura folta e ondulata, occhi neri e vividi, silenzioso e taciturno, tentò il rientro da Fiume con il motopeschereccio “Nazzareno Primo Esiste”, precedentemente adibito ai servizi di guerra e di proprietà della sua famiglia.

Francesco Fiscaletti faceva parte dell’equipaggio come motorista. La barca venne avvicinata e fermata, al largo di Ancona, da motovedette tedesche. Gli occupanti vennero trasferiti sui mezzi nemici e sbarcati a Venezia, ove restarono a disposizione. Il motopeschereccio venne fatto affondare. Una chiara punizione per avere imbarcato militari sbandati. Francesco Fiscaletti, lasciato libero a Venezia, raggiunse San Benedetto del Tronto ed entrò a far parte della formazione Paolini.

Dopo aver partecipato ad azioni militari, mentre tentava di arrivare al nord Italia insieme al tenente Paolini e Berton, si distinse per imprese contro le truppe naziste e le formazioni fasciste presenti in zona. Dopo essere riuscito a mettersi in collegamento con altre formazioni partigiane operanti in provincia e con ufficiali inglesi, sulla strada Arezzo-Firenze, fu arrestato insieme al tenente Paolini e Settimio Berton da una pattuglia di militi della polizia ausiliaria repubblichina di Arezzo.

Fatto prigioniero, su ordine del prefetto repubblichino di Arezzo Bruno Rao Torres, senza alcun processo, venne condannato a morte per fucilazione. La fucilazione fu eseguita da un plotone di giovani fascisti comandato dal repubblichino Renato Tatarotti distintosi per le torture e le uccisioni di partigiani e antifascisti.


Il Maresciallo Nardone e Isaia Ceci

Il 28 novembre 1944, cinque soldati tedeschi, a bordo di due sidecar, in transito nell’allora piazza Roma (oggi piazza Nardone), vedendo divelta la saracinesca di un magazzino di vettovaglie, a causa del bombardamento del giorno precedente, entrarono nello stesso e lo saccheggiarono. 

Un cittadino che assisteva alla scena, si recò alla vicina caserma dei carabinieri, per raccontare il fatto. Il maresciallo Nardone, comandante della stazione, accorse immediatamente, sorprendendo i militari tedeschi a caricare i viveri sui loro sidecar. Sebbene solo, non esitò ad intimare ai cinque tedeschi, mitra alla mano, di desistere e restituire quanto sottratto. 

I cinque militari, di fronte al deciso intervento del maresciallo, esitarono, poi due di essi riuscirono a sopraffarlo, mentre gli altri cercarono riparo nel magazzino. Ne scaturì un violento scontro a fuoco, che si sviluppò fino a quando un tedesco, sparando con le pistole-machine, colpì alle spalle il valoroso M. llo Nardone, che cadde a terra gravemente ferito. I colpi di arma da fuoco richiamarono l’attenzione dei militari presenti nella vicina caserma. Il carabiniere Ceci Isaia accorse di slancio e, vedendo il suo comandante ferito a terra, aprì il fuoco, ma fu raggiunto da una raffica di mitra all’addome. Cadde ferito mortalmente. I tedeschi desistettero dal saccheggio e con i sidecar si diressero verso Grottammare. Cittadini di San Benedetto soccorsero i due valorosi carabinieri, poco distanti l’uno dall’altro, portandoli successivamente all’ospedale, peraltro inadeguato in quanto in via di smobilitazione per trasferimento. Venne usata una strana barella con ruote. Il valoroso Maresciallo Luciano Nardone morente venne adagiato sulla pietra di marmo dell’obitorio, dove morì verso le ore 16.00. Il Ceci deposto sul pavimento morì presso l’ospedale di Ascoli Piceno, due giorni più tardi, dopo atroci sofferenze.


Gian Maria Paolini, tenente della Finanza

Comandante di plotone dell’esercito italiano in Dalmazia, il 18 settembre 1943 per non giurare fedeltà alla repubblica Sociale Italiana di Mussolini, si imbarcò da Stretto località della Dalmazia. Sbarcato a San Benedetto del Tronto, insieme al Sanbenedettese Francesco Fiscaletti e altri patrioti costituì la cosiddetta Banda Paolini che si distinse per imprese contro le truppe naziste e le formazioni fasciste presenti in zona dopo essere riuscito a mettersi in collegamento con altre formazioni partigiane operanti in provincia e con ufficiali inglesi. Sulla strada Arezzo-Firenze, fu arrestato insieme al Francesco Fiscaletti da una pattuglia di militi della polizia ausiliaria repubblichina di Arezzo. 

Fatto prigioniero, su ordine del prefetto repubblichino di Arezzo Bruno Rao Torres, senza alcun processo, venne condannato a morte per fucilazione. La fucilazione fu eseguita da un plotone comandato dal repubblichino Renato Tatarotti distintosi per le torture e le uccisioni di partigiani e antifascisti. A nulla valsero le forti proteste di una rappresentanza di donne che si recò al comando tedesco, per implorare la sospensione dell’esecuzione né il fatto che i fascisti che volevano incutere timore si trovarono circondati da un folto gruppo di donne di San Giovanni Val d’Arno, risolute e minacciose. 

Da una testimonianza di Padre Teodosio il frate presente alla fucilazione: 

Inorridii per la scena orribile. Grande fu l’impressione provata, tanto che mi voltai indietro e inveii contro l’ufficiale repubblichino, vomitandogli una valanga d'improperi. Poi, mentre quei poveri ragazzi a terra rantolavano ancora, io m'inginocchiai accanto a loro per dare a ciascuno l’assoluzione. In quel mentre si avvicinò l’ufficiale, che diede loro il cosiddetto colpo di grazia alla tempia. Non ci vidi più. Ricordo solo che dalla mia bocca uscirono parole forti di protesta, contro questo eccidio ingiusto e disumano e contro chi ne era il mandante. – “Vergognatevi” - dissi all’ufficiale – “si spara a dei fratelli italiani come si spara agli uccelli? Chi vi autorizza a commettere questi orribili omicidi? Un giorno dovrete renderne conto a Dio, giusto Giudice!” 
All’esecuzione non c’erano tedeschi; erano tutti giovanissimi militi italiani, alcuni vestiti in nero, altri in grigio verde. Dal dialetto sembravano emiliani e toscani. 
La salma del Paolini venne traslata a Garessio sua città natale il 20 aprile 1946, nel locale cimitero. Alla sua memoria, il Presidente della Repubblica, ha concesso la medaglia d’argento al valor militare con la seguente motivazione: 
“ Valoroso ufficiale, reagiva con indignazione ad atti di crudeltà, commessi da militari tedeschi in sosta in una stazione ferroviaria, costringendo con lancio di bombe a mano, il convoglio ad allontanarsi. Al comando di una banda di partigiani, sosteneva per un intero ciclo operativo, numerosi scontri con i nazifascisti distinguendosi per coraggio, ardimento e sprezzo del pericolo. Catturato dai repubblichini, veniva condotto al supplizio, che seppe affrontare con serena fermezza, al grido di Viva l’Italia  “. 

Zona Picena 12 settembre 1943 – aprile 1944


Mario Mazzocchi 

Mario Mazzocchi sanbenedettese ha combattuto con la formazione partigiana del Tenente Paolini, impegnata nella lotta partigiana contro i nazifasciti operanti nella zona dell’ascolano con azioni di sabotaggio, che consistevano nell’interruzione delle comunicazioni, delle strade, nelle modifiche alla segnaletica stradale togliendo al nemico ogni sicurezza. Partecipò a numerosi scontri a fuoco contro truppe naziste e formazioni fasciste della provincia. 

Fu attivo in azioni contro i nazisti e i fascisti repubblichini a Monsampietro di Venarotta e Rovetino dove fu intercettato da squadracce repubblichine. 

Riuscito a fuggire dall’abitazione dove aveva trovato rifugio fu avvistato da due mitraglieri nazisti, appostati sul Colle della Croce, che fecero partire delle raffiche colpendolo al polpaccio. Mazzocchi si fermò per arrestare l’emorragia, servendosi della cinta dei pantaloni, ma, raggiunto dai repubblichini fascisti italiani, venne da questi barbaramente ucciso con due colpi di pistola alla testa. 

Venne seppellito nel cimitero di Portella di Venarotta. La salma fu poi traslata a San Benedetto con solenni funerali. 

Mazzocchi Mario fu proposto per la medaglia al valor militare, con la seguente motivazione: 

Fedele alla Patria, dopo lunghe e vittoriose azioni di pericolosa guerriglia, guida ardimentosa della lotta partigiana a Rovetino e a Castel di Croce, cadde da eroe in combattimento, presso il casolare Ubaldi, all’alba del 12 marzo 1944.



Commemorazione dell'eccidio nazista dei patrioti Neutro e Salvatore Spinozzi e del carabiniere Elio Fileni, in località Ponterotto, il 12 giugno 1944.

SAN BENEDETTO DEL TRONTO, LOCALITA' PONTEROTTO, 12 GIUGNO 2024 Dall’aprile del 1944 le formazioni partigiane operanti nel nostro territo...