mercoledì 12 giugno 2024

Commemorazione dell'eccidio nazista dei patrioti Neutro e Salvatore Spinozzi e del carabiniere Elio Fileni, in località Ponterotto, il 12 giugno 1944.

SAN BENEDETTO DEL TRONTO, LOCALITA' PONTEROTTO, 12 GIUGNO 2024


Dall’aprile del 1944 le formazioni partigiane operanti nel nostro territorio erano:


“Bi Marini” – in contrada Pagliare del Tronto;
“Zara” (comandata dall’omonimo maresciallo) – nella zona di Monteprandone;
“Capriotti” (comandata da Augusto Capriotti) – nella zona di Offida:
“Colagiacomi” (comandata dal tenente Domenico Colagiacomi) – nella zona di Acquaviva Picena.

Nella frazione Ponterotto di San Benedetto del Tronto, dopo la partenza della formazione Paolini, furono accolti i patrioti della formazione “Zara”, fra questi Neutro Spinozzi.

L'11 giugno 1944, nel pomeriggio, arrivarono nella frazione “Ponterotto” alcune camionette, con a bordo tedeschi in ritirata, che pretesero vitto e alloggio.

Il 12 giugno, in mattinata, cinque tedeschi, che occupavano la casa di Salvatore Spinozzi, durante un’operazione di razzia sequestrarono una bicicletta, che una donna aveva lasciato appoggiata ad un muro, nei pressi di un negozio di generi alimentari.

La donna, nel tentativo di recuperare il mezzo, piangendo, raccontò l’accaduto a Neutro Spinozzi, che, in compagnia di un certo Benci, passava da quelle parti.

Neutro Spinozzi, ex segnalatore della Regia Marina, dopo l'armistizio, era rientrato da Spalato, affrontando una pericolosa traversata. Uomo di provata fede antifascista era inizialmente aggregato alla Formazione Paolini e poi alla Formazione Zara, di stanza nella zona "Ponterotto".

Neutro ordinò al Benci di recuperare la bicicletta e di riconsegnarla alla legittima proprietaria.

Il militare tedesco, non trovando all'uscita di casa la bicicletta, cominciò a sparare colpi di pistola in aria, cercando di raggiungere il gruppo con la bici, che si dirigeva verso il ponte sul torrente Albula.

Nel frattempo ai due patrioti si era aggregato il fratello di Neutro, Salvatore Spinozzi, che rientrava dalla campagna.

Il tedesco raggiunto il gruppo tentò di riprendersi la bicicletta, ma Neutro si oppose. Il militare spaventato dalla prestanza fisica del patriota, reagì estraendo la pistola, tentando di sparare. Neutro lo aggredì prontamente, colpendolo fino a tramortirlo e s'impadronì dell'arma in tempo utile per rispondere ai colpi di pistola di un altro militare tedesco, accorso in aiuto.

Neutro venne ferito; anche il tedesco, che gli aveva sparato, venne raggiunto dai colpi del patriota.

Qualcuno avvisò il comando tedesco di base in località “la Quercia” di Acquaviva Picena.

Sul posto arrivò velocemente una camionetta, armata di mitragliatrice.

Il commissario prefettizio, Pippo Anelli, si era già portato sul posto, ma avvertito il pericolo imminente, si rifugiò in una casa vicina e, saltando poi dalla finestra posta sul retro dell’edificio, si dileguò, attraversando un campo di grano. I tedeschi diressero immediatamente il fuoco dei fucili mitragliatori verso il campo, ma non riuscirono a colpirlo.

Il brigadiere Elio Fileni, addetto all’ordine pubblico di quella frazione, si avvicinò al campo d’azione per tentare l’impossibile, ma venne catturato, torturato, ucciso e spogliato di tutti i valori.

Il mitragliamento continuò e Neutro Spinozzi fu colpito a morte, mentre suo fratello Salvatore, ferito alle gambe, tentando di rotolarsi dalla scarpata, venne raggiunto da un militare tedesco, che gl'inferse il colpo di grazia alla testa.

I tedeschi si portarono verso il centro dell’abitato sparando all’impazzata. Una sventagliata di mitra venne diretta verso una finestra dove erano affacciate delle donne, rimaste fortunatamente incolumi, perché ritiratesi in tempo.

Se avessero perquisito lo stabile, probabilmente ci sarebbe stata una strage perché, al piano terra, nell’ufficio del Commissario Prefettizio, c'era un deposito di armi.

Le strade della frazione rimasero deserte; tutti gli abitanti si rifugiarono nelle proprie case.

I militari tedeschi rastrellarono uomini donne e ragazzi. Filippo Vagnoni e Filippo Formentini vennero messi al muro dell’abitazione di quest’ultimo, simulando un'esecuzione, a scopo intimidatorio.

Il timore di una rappresaglia era grande, ma, quando i tedeschi accertarono che non si trattava di un’azione partigiana armata e che l’incidente era stato causato da un loro camerata, il tenente di pattuglia ordinò il rilascio degli ostaggi.

L'ufficiale, avendo considerato che Neutro Spinozzi era disarmato e il Fileni era accorso per sedare lo scontro, si limitò a bruciare le case di Pasquale Piunti, ove si era rifugiato il Commissario Prefettizio Anelli e quella di Attilio Bollettini, che era di fronte.

domenica 2 giugno 2024

FESTA DELLA REPUBBLICA 2024 A SAN BENEDETTO


CERIMONIA 2 GIUGNO 2024 SALA CONSILIARE – ORE 10,30

Intervento del Sindaco

Porgo il saluto mio personale, e dell’Amministrazione comunale tutta, alle autorità civili e militari, ai rappresentanti delle associazioni combattentistiche e d’arma, ai cittadini che sono intervenuti a questa cerimonia.

Un saluto particolare e un ringraziamento va al dr. Ettore Picardi, Procuratore della Repubblica di Teramo, nostro concittadino, uomo di profonda cultura, che ha accettato il nostro invito a svolgere una riflessione su questa ricorrenza a cui ha voluto dare il titolo di “Repubblica e democrazia, storia ed attualità".

Io partirei proprio da questo tema per capire se, a quasi 80 anni di distanza, quello che è scritto nella carta fondamentale della Repubblica Italiana è ancora attuale e soprattutto è presente nella vita di ognuno.

La vita di noi tutti si svolge in luoghi precisi, spesso gli stessi: casa, scuola, lavoro, spazi cittadini o di campagna. Noi assumiamo comportamenti in relazione al contesto in cui ci troviamo perché viviamo costantemente accanto ai nostri familiari, agli amici, ai colleghi.

Ma se riflettiamo su ciò che fa da sfondo ai nostri comportamenti, e li condiziona, ci accorgiamo che essi si ricollegano direttamente ai principi e ai valori che stanno alla base della nostra società e del suo ordinamento, alla storia del nostro Paese, che ne hanno determinato il presente. Quei principi e quei valori che ritroviamo scolpiti nella Carta Costituzionale.

Il diritto all’eguaglianza, alla salute, al lavoro, alla libertà di espressione, alla libertà religiosa, alla tutela del paesaggio, al rifiuto della guerra, il diritto di riunione sono cardini insostituibili nella costruzione della personalità di ogni italiano nonché criteri immediatamente applicabili nelle situazioni concrete della vita di ognuno.

La Costituzione della Repubblica Italiana è una guida alla vita: i principi fondamentali che vi sono descritti non sono mere e astratte enunciazioni scritte a tavolino dai Padri Costituenti ma sono l’elaborazione dell’esperienza vissuta da un popolo in 20 anni di dittatura e in 5 anni di guerra rovinosa e carica di lutti. Quell’esperienza insegnò agli Italiani che le

libertà, i diritti non solo vanno scritti in modo indelebile nel cuore della società ma vanno curati, tutelati, protetti ogni giorno, in ogni occasione. Girarsi dall’altra parte quando essi vengono messi in discussione porta alla loro compressione: non si può barattare una tranquilla esistenza con l’annullamento della libera coscienza e della possibilità di costruirsi un futuro.

La Costituzione italiana è un testo semplice, e al tempo stesso ricco di significati in ogni frase: essa ci parla delle circostanze in cui fu scritta, della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, dell’accordo di tutta la politica di allora sui principi fondamentali della democrazia, conquistata a prezzo di dure lotte durante la Resistenza, della nascita della Repubblica nella quale viviamo.

Essa ci parla di una società ben regolata, cioè di un obiettivo ideale per ogni convivenza civile. In questo senso essa è una mappa: di ciò che il nostro Paese in parte è diventato, e in parte dovrebbe ancora aspirare ad essere.

La nostra Costituzione è certamente un testo che può essere aggiornato ai tempi che cambiano, quello che non può cambiare è il principio fondante della carta stessa, ovvero che essa ha una potenza superiore ad ogni legge perché esprime valori superiori ad ogni preferenza di parte: l’eguaglianza, la solidarietà tra gli italiani, il rifiuto della guerra, la libertà di parola, il suffragio universale, la tutela della salute, l’unità del Paese, non potranno mai essere messi in discussione, a prescindere dalla maggioranza politica di turno al governo dell’Italia.

Detto questo, è inutile negare che le istituzioni nate oltre settant’anni fa vivano un momento di crisi di credibilità. I cittadini manifestano in ogni modo la loro sfiducia, ad iniziare dalla deludente affluenza alle urne. Credo sia necessario un grande sforzo da parte di tutti, perché attraverso il comportamento pubblico e privato delle persone incaricate di ruoli istituzionali, si recuperi quella credibilità che sembra appannata. I parlamentari, i ministri, i sindaci, gli amministratori regionali, provinciali, comunali, i magistrati, i funzionari dello Stato devono tornare ad essere punti di riferimento per i cittadini perché solo la fiducia che essi ripongono in queste istituzioni e in chi le rappresenta rafforza la democrazia; e ogni sforzo, ogni comportamento di quanti hanno responsabilità pubbliche finalizzato a questo obiettivo rappresenta un importante servizio alla democrazia.

Infine, mi sia permesso di fare un riferimento alla prossima scadenza

elettorale che ci vedrà chiamati al voto per rinnovare il parlamento europeo. Le istituzioni europee non sfuggono a quella crisi di cui ho parlato prima: gli italiani, che hanno sempre dichiarato il loro profondo europeismo, ben più forte di quello di tanti altri popoli, ora vacillano nelle loro convinzioni. L’Europa ha sempre più difficoltà a farsi ascoltare nelle sedi internazionali, non riesce quai mai a parlare con una sola voce e quella voce appare spesso contraddittoria e incomprensibile ai cittadini.

Eppure, questo è il momento per pretendere un’Europa più forte: ma non un’Europa dei burocrati, delle norme astruse e incomprensibili, delle cancellerie che si accordano su questo o su quel progetto in base alle convenienze dei singoli stati, bensì un’Europa che sappia assumere sulle sue spalle parti fondamentali del potere pubblico, ad iniziare dalla difesa e dalle politiche economiche e fiscali, e si faccia promotrice di una nuova stagione di pace nella libertà, concetto alla base dello spirito comunitario che ispirò i sei Paesi fondatori.

A tal proposito mi piace chiudere con una citazione che risale ad oltre mezzo secolo fa ma che è quantomai attuale nella situazione che ho appena descritto. E’ del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Scriveva Einaudi nel 1954, quando il cammino dell'unificazione europea si era appena avviato: "Nella vita delle nazioni, di solito l'errore di non saper cogliere l'attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l'Europa è evidente. Gli stati esistenti sono polvere senza sostanza. Solo l'unione può farli durare. Il problema non è fra l'indipendenza e l'unione; è fra l'esistere uniti e lo scomparire".

Oggi è proprio questa è la posta in gioco: da soli non esistiamo, uniti possiamo guardare con fiducia al futuro nel segno dei valori che ci ha tramandato la nostra Costituzione e che ritroviamo nei principi fondanti della comunità degli stati europei.

Vi ringrazio.


lunedì 6 maggio 2024

25 APRILE 2024













Giacomo Matteotti, morte di un antifascista

Nato a Fratta Polesine, presso Rovigo, nel 1885, Matteotti già nel 1907, dopo una laurea in giurisprudenza a Bologna, entra in contatto con diversi movimenti socialisti. Nella Grande Guerra non viene arruolato, in quanto unico figlio superstite di madre vedova: è però attivo contro il conflitto, tanto da essere mandato al confino nei monti presso Messina. Nel 1919 viene eletto deputato con i socialisti per la circoscrizione elettorale Ferrara-Rovigo, dove viene riconfermato nel 1921 e nel 1924. In Parlamento non perde occasione per denunciare le attività illegali dei fascisti, al potere dal 1922 in seguito alla marcia su Roma, e la repressione violenta del dissenso. A oltre novant’anni di distanza, è visto ancora oggi come uno dei massimi esempi dell’antifascismo italiano. 

È il 30 maggio del 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti firma, con un discorso alla Camera, la sua condanna a morte. Ne è consapevole perché finito di parlare, dopo aver denunciato pubblicamente l’uso sistematico della violenza a scopo intimidatorio usata dai fascisti per vincere le elezioni e contestato la validità del voto, dice ai colleghi:

«Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me»

Pochi giorni dopo, il 10 giugno, viene rapito a Roma. Sono da poco passate le quattro del pomeriggio e si sta recando a Montecitorio. Sotto casa, in lungotevere Arnaldo da Brescia, nel quartiere Flaminio, una squadra di cinque fascisti guidata da Amerigo Dumini lo preleva con la forza e lo carica in macchina (dove viene picchiato e accoltellato fino alla morte, per poi essere seppellito nel bosco della Quartarella, a 25 chilometri dalla Capitale). L’auto, una Lancia Lambda, viene fornita dal direttore del «Corriere Italiano» Filippo Filippelli.

L’assenza di Matteotti non giustificata in Parlamento non viene immediatamente notata, ma già il giorno dopo, l’11 giugno, la notizia della scomparsa appare sui giornali. 

Le prime indagini partono proprio dall’automobile e sono condotte da Mauro Del Giudice e Umberto Guglielmo Tancredi. In breve, tutti i rapitori sono identificati e arrestati, ma dietro diretto interesse del Duce, le indagini vengono fermate. I socialisti unitari vicini a Filippo Turati diramano un comunicato che accusa il governo.

Il corpo di Matteotti viene ritrovato solamente il 16 agosto del 1924 dal cane di un brigadiere in licenza, Ovidio Caratelli. Mussolini ordina al ministro degli Interni Luigi Federzoni di preparare imponenti funerali da tenersi però a Fratta Polesine, città natale di Matteotti, in modo da tenerli lontani dall’attenzione dell’opinione pubblica. La vedova Velia Matteotti scrive a Federzoni chiedendo che al funerale non fossero presenti esponenti del PNF (Partito Nazionale Fascista) e della Milizia.

Il 3 gennaio 1925, a ormai oltre sei mesi dal delitto, di fronte alla Camera dei deputati, Mussolini inizia un discorso in cui, inizialmente, nega ogni coinvolgimento nella morte, ma poi si assume personalmente la responsabilità dell’accaduto.

“Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere”, pronunciò il capo del fascismo in un discorso divenuto storico, che aprì la strada alla definitiva svolta dittatoriale dell’Italia verso il regime fascista.

A pesare sull’omicidio è il celebre discorso nel quale venivano denunciati i brogli e le violenze delle elezioni del regime. Ma Matteotti stava anche per presentare alla Camera un dossier riguardante le tangenti e le mazzette che la Sinclair Oil americana pagava al Duce e al Re per poter trivellare il suolo siciliano e per i suoi interessi sul suolo libico (sarebbero finite nelle tasche di altissimi esponenti del regime, tra cui anche il fratello di Mussolini, Arnaldo). E non è un caso che volesse rivelare l’illecito proprio in occasione della riapertura dell’Aula di Montecitorio il 10 giugno, il giorno in cui fu rapito e ucciso.

IL CASO DUMINI – Merita per gli autori una piccola divagazione la storia di Dumini che, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, lavora sotto falsa identità per le truppe d’occupazione americane, come autista e interprete. Arrestato per caso il 18 luglio 1945 a Piacenza, nei suoi confronti viene riaperto il processo per l’omicidio Matteotti. Riconosciuto colpevole di omicidio premeditato e condannato all’ergastolo il 4 aprile del 1947, dopo 6 anni è scarcerato per l’amnistia concessa dal Governo di Giuseppe Pella nel 1953, venendo graziato definitivamente nel 1956. Tornato libero, si iscrive al Movimento Sociale Italiano. Muore nel Natale del 1967, a 73 anni, presso l’ospedale San Camillo in seguito alla violenta scarica elettrica ricevuta accidentalmente nella propria abitazione mentre tentava di cambiare una lampadina nel suo studio.


Francesco Fiscaletti

Il 17 settembre 1943, Francesco Fiscaletti, nato a San Benedetto del Tronto il 23 settembre 1919, alto e slanciato, corpo di atleta, capigliatura folta e ondulata, occhi neri e vividi, silenzioso e taciturno, tentò il rientro da Fiume con il motopeschereccio “Nazzareno Primo Esiste”, precedentemente adibito ai servizi di guerra e di proprietà della sua famiglia.

Francesco Fiscaletti faceva parte dell’equipaggio come motorista. La barca venne avvicinata e fermata, al largo di Ancona, da motovedette tedesche. Gli occupanti vennero trasferiti sui mezzi nemici e sbarcati a Venezia, ove restarono a disposizione. Il motopeschereccio venne fatto affondare. Una chiara punizione per avere imbarcato militari sbandati. Francesco Fiscaletti, lasciato libero a Venezia, raggiunse San Benedetto del Tronto ed entrò a far parte della formazione Paolini.

Dopo aver partecipato ad azioni militari, mentre tentava di arrivare al nord Italia insieme al tenente Paolini e Berton, si distinse per imprese contro le truppe naziste e le formazioni fasciste presenti in zona. Dopo essere riuscito a mettersi in collegamento con altre formazioni partigiane operanti in provincia e con ufficiali inglesi, sulla strada Arezzo-Firenze, fu arrestato insieme al tenente Paolini e Settimio Berton da una pattuglia di militi della polizia ausiliaria repubblichina di Arezzo.

Fatto prigioniero, su ordine del prefetto repubblichino di Arezzo Bruno Rao Torres, senza alcun processo, venne condannato a morte per fucilazione. La fucilazione fu eseguita da un plotone di giovani fascisti comandato dal repubblichino Renato Tatarotti distintosi per le torture e le uccisioni di partigiani e antifascisti.


Il Maresciallo Nardone e Isaia Ceci

Il 28 novembre 1944, cinque soldati tedeschi, a bordo di due sidecar, in transito nell’allora piazza Roma (oggi piazza Nardone), vedendo divelta la saracinesca di un magazzino di vettovaglie, a causa del bombardamento del giorno precedente, entrarono nello stesso e lo saccheggiarono. 

Un cittadino che assisteva alla scena, si recò alla vicina caserma dei carabinieri, per raccontare il fatto. Il maresciallo Nardone, comandante della stazione, accorse immediatamente, sorprendendo i militari tedeschi a caricare i viveri sui loro sidecar. Sebbene solo, non esitò ad intimare ai cinque tedeschi, mitra alla mano, di desistere e restituire quanto sottratto. 

I cinque militari, di fronte al deciso intervento del maresciallo, esitarono, poi due di essi riuscirono a sopraffarlo, mentre gli altri cercarono riparo nel magazzino. Ne scaturì un violento scontro a fuoco, che si sviluppò fino a quando un tedesco, sparando con le pistole-machine, colpì alle spalle il valoroso M. llo Nardone, che cadde a terra gravemente ferito. I colpi di arma da fuoco richiamarono l’attenzione dei militari presenti nella vicina caserma. Il carabiniere Ceci Isaia accorse di slancio e, vedendo il suo comandante ferito a terra, aprì il fuoco, ma fu raggiunto da una raffica di mitra all’addome. Cadde ferito mortalmente. I tedeschi desistettero dal saccheggio e con i sidecar si diressero verso Grottammare. Cittadini di San Benedetto soccorsero i due valorosi carabinieri, poco distanti l’uno dall’altro, portandoli successivamente all’ospedale, peraltro inadeguato in quanto in via di smobilitazione per trasferimento. Venne usata una strana barella con ruote. Il valoroso Maresciallo Luciano Nardone morente venne adagiato sulla pietra di marmo dell’obitorio, dove morì verso le ore 16.00. Il Ceci deposto sul pavimento morì presso l’ospedale di Ascoli Piceno, due giorni più tardi, dopo atroci sofferenze.


Gian Maria Paolini, tenente della Finanza

Comandante di plotone dell’esercito italiano in Dalmazia, il 18 settembre 1943 per non giurare fedeltà alla repubblica Sociale Italiana di Mussolini, si imbarcò da Stretto località della Dalmazia. Sbarcato a San Benedetto del Tronto, insieme al Sanbenedettese Francesco Fiscaletti e altri patrioti costituì la cosiddetta Banda Paolini che si distinse per imprese contro le truppe naziste e le formazioni fasciste presenti in zona dopo essere riuscito a mettersi in collegamento con altre formazioni partigiane operanti in provincia e con ufficiali inglesi. Sulla strada Arezzo-Firenze, fu arrestato insieme al Francesco Fiscaletti da una pattuglia di militi della polizia ausiliaria repubblichina di Arezzo. 

Fatto prigioniero, su ordine del prefetto repubblichino di Arezzo Bruno Rao Torres, senza alcun processo, venne condannato a morte per fucilazione. La fucilazione fu eseguita da un plotone comandato dal repubblichino Renato Tatarotti distintosi per le torture e le uccisioni di partigiani e antifascisti. A nulla valsero le forti proteste di una rappresentanza di donne che si recò al comando tedesco, per implorare la sospensione dell’esecuzione né il fatto che i fascisti che volevano incutere timore si trovarono circondati da un folto gruppo di donne di San Giovanni Val d’Arno, risolute e minacciose. 

Da una testimonianza di Padre Teodosio il frate presente alla fucilazione: 

Inorridii per la scena orribile. Grande fu l’impressione provata, tanto che mi voltai indietro e inveii contro l’ufficiale repubblichino, vomitandogli una valanga d'improperi. Poi, mentre quei poveri ragazzi a terra rantolavano ancora, io m'inginocchiai accanto a loro per dare a ciascuno l’assoluzione. In quel mentre si avvicinò l’ufficiale, che diede loro il cosiddetto colpo di grazia alla tempia. Non ci vidi più. Ricordo solo che dalla mia bocca uscirono parole forti di protesta, contro questo eccidio ingiusto e disumano e contro chi ne era il mandante. – “Vergognatevi” - dissi all’ufficiale – “si spara a dei fratelli italiani come si spara agli uccelli? Chi vi autorizza a commettere questi orribili omicidi? Un giorno dovrete renderne conto a Dio, giusto Giudice!” 
All’esecuzione non c’erano tedeschi; erano tutti giovanissimi militi italiani, alcuni vestiti in nero, altri in grigio verde. Dal dialetto sembravano emiliani e toscani. 
La salma del Paolini venne traslata a Garessio sua città natale il 20 aprile 1946, nel locale cimitero. Alla sua memoria, il Presidente della Repubblica, ha concesso la medaglia d’argento al valor militare con la seguente motivazione: 
“ Valoroso ufficiale, reagiva con indignazione ad atti di crudeltà, commessi da militari tedeschi in sosta in una stazione ferroviaria, costringendo con lancio di bombe a mano, il convoglio ad allontanarsi. Al comando di una banda di partigiani, sosteneva per un intero ciclo operativo, numerosi scontri con i nazifascisti distinguendosi per coraggio, ardimento e sprezzo del pericolo. Catturato dai repubblichini, veniva condotto al supplizio, che seppe affrontare con serena fermezza, al grido di Viva l’Italia  “. 

Zona Picena 12 settembre 1943 – aprile 1944


Mario Mazzocchi 

Mario Mazzocchi sanbenedettese ha combattuto con la formazione partigiana del Tenente Paolini, impegnata nella lotta partigiana contro i nazifasciti operanti nella zona dell’ascolano con azioni di sabotaggio, che consistevano nell’interruzione delle comunicazioni, delle strade, nelle modifiche alla segnaletica stradale togliendo al nemico ogni sicurezza. Partecipò a numerosi scontri a fuoco contro truppe naziste e formazioni fasciste della provincia. 

Fu attivo in azioni contro i nazisti e i fascisti repubblichini a Monsampietro di Venarotta e Rovetino dove fu intercettato da squadracce repubblichine. 

Riuscito a fuggire dall’abitazione dove aveva trovato rifugio fu avvistato da due mitraglieri nazisti, appostati sul Colle della Croce, che fecero partire delle raffiche colpendolo al polpaccio. Mazzocchi si fermò per arrestare l’emorragia, servendosi della cinta dei pantaloni, ma, raggiunto dai repubblichini fascisti italiani, venne da questi barbaramente ucciso con due colpi di pistola alla testa. 

Venne seppellito nel cimitero di Portella di Venarotta. La salma fu poi traslata a San Benedetto con solenni funerali. 

Mazzocchi Mario fu proposto per la medaglia al valor militare, con la seguente motivazione: 

Fedele alla Patria, dopo lunghe e vittoriose azioni di pericolosa guerriglia, guida ardimentosa della lotta partigiana a Rovetino e a Castel di Croce, cadde da eroe in combattimento, presso il casolare Ubaldi, all’alba del 12 marzo 1944.



sabato 9 marzo 2024

80° ANNIVERSARIO DELLA BATTAGLIA DI ROVETINO

CASTEL DI CROCE - MONSANPIETRO

Alle ore 10:00 a Castel di Croce (Rotella) e a Monsampietro (Venarotta) c'è stata la commemorazione della  uccisione, per mano di nazifascisti, di nostri concittadini partigiani, Gino Capriotti, Mario Mazzocchi, Livio Danesin e Antonio Tauro, combattenti appartenenti alla formazione del tenente Paolini, in occasione dell'ottantesimo anniversario della battaglia di Rovetino contro i nazifascisti.
La nostra sezione è stata presente come tutti gli anni. Sono intervenuti i rappresentanti delle istituzioni e le autorità civili, militari e religiose.










   ... " All’alba del 9 marzo 1944 i patrioti si appostarono nel bosco di Rovetino, sul Colle San Severino, nella boscaglia Pierantozzi, a circa 200 metri dalla parrocchiale di Castel di Croce.

Il tempo era avverso, perché la neve continuava a cadere e le bufere erano sempre più intense, compromettendo così la visibilità e le possibilità di spostamento. I patrioti nascosero sotto la neve, sul lato Nord del castello, 135 casse di munizioni per renderne più facile il recupero a fine scontro, a seguito del necessario trasferimento dal centro abitato alla caserma D’Armolatti. Osservando questi preparativi, che prevedevano un attacco nemico, i prigionieri anglo-americani, per non essere coinvolti, si dileguarono. I patrioti erano preoccupati ma pronti, nonostante il fatto che Paolini e Berton fossero febbricitanti.

Paolini, con un drappello formato da quattro uomini fidati, si portò in contrada Croce Rossa per accertare la consistenza delle forze nemiche, rientrando rapidamente alla base, dopo una breve sosta nella casa di Giovanni Gaspari. Dieci minuti dopo due fascisti di Montelparo, qualificatisi patrioti, ma in realtà collaboratori dei tedeschi in avanscoperta, entrarono nella stessa casa al fine di acquisire utili informazioni sulla dislocazione territoriale delle formazioni partigiane. Uno di questi venne riconosciuto perché si era presentato al Gaspari alcuni giorni prima con la stessa motivazione. Chiesero cibo e il Gaspari che non diceva mai no provvide, ma poco dopo la casa fu occupata dal grosso dei nazifascisti con a capo Roscioli che obbligò le donne ad abbandonarla ed il proprietario Giovanni a seguirli. Lungo il sentiero per Rovetino rastrellarono tutti gli uomini incontrati ai quali sottrassero tutto ciò che avevano addosso. A un commerciante, certo Postacchini, venne tolta una somma ingente, destinata a pagare i contadini, per la vendita di semi di erba medica. I fermati, infine, vennero rinchiusi nella chiesetta di Rovetino.

I patrioti avevano ricevuto informazioni su un eventuale attacco dei tedeschi, previsto per le ore 9.00, che non si verificò, per cui ne approfittarono per consolidare le posizioni.

Un maresciallo dei repubblichini, certo Carlo Vaccaro, si presentò al comando di Castel di Croce disarmato con le mani in alto, dichiarandosi pentito, gridò: “Giuro di combattere contro i tedeschi”. A Berton venne il sospetto che si trattasse di spia fascista e, nel timore che potesse creare scompiglio fra i partigiani, lo arrestò, chiudendolo nella prigione con l’agente di pubblica sicurezza Adami e il sedicente comandante dei patrioti, catturati il giorno prima. Alle 10.30, quattro colonne tedesche guidate da fascisti, muniti di armi pesanti ed automatiche, provenienti da direzioni diverse, mossero alla volta di Rovetino.

Accerchiare i patrioti e stringerli in un anello di ferro e di fuoco significava per le truppe tedesche chiudere ogni via di fuga, attraverso le vallate dell’Aso e del Tesino, a cavallo delle quali si erge il bastione naturale di Rovetino. In quei luoghi infatti erano appostati i patrioti.

Una frana enorme sulla provinciale Venarotta-Force, nei pressi di Villa Teodori, bloccò una colonna tedesca di circa 20 automezzi. Per questo ostacolo, che procurò un ritardo di tre ore, il settore di Castel di Croce non fu sorpreso alle spalle. A mala pena i tedeschi raggiunsero Rovetino. Il rombo dei motori che si sentiva dalla contrada Croce Rossa dette l’allarme e gli eroici patrioti si prepararono al combattimento.

Poco prima di mezzogiorno si scatenò l’offensiva con l’evidente obiettivo di accerchiare Rovetino. Le artiglierie tedesche iniziarono a colpire ripetutamente la selva e, con le armi leggere, tentarono di mettere in difficoltà i patrioti, che, nella neve, tra forre e boscaglia, lottarono e si difesero accanitamente, in uno scontro a fuoco della durata di circa tre ore. Paolini inviò una staffetta per chiedere rinforzi a Berton, ordinando il ripiegamento verso Castel di Croce. Il combattimento si inasprì in località “Vigneto”; la formazione si aprì un varco, nel tentativo di sottrarsi alla morsa delle forze nemiche. Furono costretti al ripiegamento per non rischiare la totale distruzione dei reparti e l'esaurimento delle munizioni. Questa manovra fu possibile grazie alla perfetta conoscenza dell’accidentato territorio che consentì alla formazione, con una faticosa marcia, di portarsi a Sud e raggiungere Castel di Croce.

Le sparatorie aumentarono e si spostarono in senso concentrico verso il caposaldo, detto “la Torretta” che è il colle più alto di Rovetino. Alcune granate colpirono i due pagliai della casa colonica D’Angelo, ove erano nascoste le munizioni, che scoppiarono con detonazioni paurose. Berton, per disorientare il nemico, cambiò l’avamposto a Castel di Croce. Invece di puntare su Rovetino, si diresse verso il bosco “Pierantozzi”, dove esisteva una mulattiera coperta e vi piazzò una mitragliatrice; un’altra venne posta nei pressi della chiesa vicino al cimitero. Si continuò a sparare, nel tentativo di accerchiare i tedeschi in zona Poggio Canoso. L' azione, anche se poco efficace, disturbò e disorientò il nemico. Due uomini di Berton, Pino Sebastiani con una mitragliatrice e Livio Danesin, detto “Fulmine” con un fucile mitragliatore, sentendo gli scoppi da Rovetino, da un’ottima postazione, non permisero ai tedeschi di avanzare, sparando fino all’ultima cartuccia e, con le armi in mano, raggiunsero Castel di Croce. Gino Capriotti, che faceva parte di quella formazione, nonostante l’invito dei compagni ad abbandonare la postazione e mettersi in salvo, resistette eroicamente nonostante il fuoco falciante del nemico, con le sue due mitragliatrici: una tedesca e una Breda, che manovrava perfettamente. Fu una valorosa resistenza quella di Gino Capriotti, che, attraverso i suoi spostamenti continui da una postazione all'altra e da un' arma all'altra, riuscì a far credere che fossero in tanti a sparare. Ecco in dettaglio la dinamica dei fatti.

La frana nei pressi di Montemoro costrinse i tedeschi a dirigersi verso il Tesino per raggiungere i posti di accerchiamento. Quando giunsero a destinazione, attaccarono i repubblichini, sopraggiunti nel frattempo, ingannati dal fatto che il fuoco delle mitragliatrici, azionate dal Capriotti, provenivano dalla stessa direzione. Quando si accorsero che si stavano sparando fra loro fu troppo tardi. I repubblichini raggiunta la “Torretta” di Rovetino, si resero conto che quella postazione era controllata da un solo partigiano. Capriotti, ferito dal fuoco tedesco, esaurite le munizioni, con sulle spalle le due mitragliatrici, si diresse verso il bosco, lasciando tracce di sangue sulla neve. Venne presto raggiunto, catturato e malmenato. Quasi morente, nell’aia di D’Angelo detto “Gnelò”, venne sgozzato dai repubblichini, come un tempo si usava fare con i cinghiali; ricevette ben sette colpi di baionetta. Tanta crudeltà e ferocia erano alimentate da sentimenti di odio e vendetta, che portò i fascisti ad agire senza tener conto delle normali convenzioni umanitarie, doverose in tempo di guerra, ma mai applicate in conflitti civili. 

Gino Capriotti, contadino, detto “Gino il rosso” per il colore dei suoi capelli o “Saltamacchia” perché non aveva un posto fisso e vagabondava per i campi, soddisfatto di quella sua vita. Era nato nel 1921 a Petritoli, in contrada Solagna. Era molto affiatato con il tenente Paolini, lo seguiva sempre, era coraggioso, si offriva sempre per le missioni più rischiose, come in quest’ultima circostanza.

Nella notte Paolini rischiò la vita per recuperare la salma abbandonata di Capriotti per dargli degna sepoltura. Era scalzo, non aveva più le scarpe donategli da Don Sante. Capriotti si era sacrificato per i suoi compagni. 

La casa colonica di D’Angelo Luigi, quale base di patrioti, dopo essere stata spogliata di tutto, anche del bestiame, venne data alle fiamme dai fascisti, guidati dal noto Bixio di Montalto, con i familiari chiusi dentro; questi saltarono dalle finestre e si dettero ad una precipitosa fuga. Le cognate Maria Mariani e Rosa Pasqualini furono ferite mentre la figlia di “Gnelò” Carolina fu arrestata e tradotta nelle carceri di Force. Le donne ferite, soccorse dai vicini, adagiate su due scale, a guisa di barella, furono trasferite all’ospedale di Offida. I nazifascisti con rabbia e ferocia bruciarono altre case di contadini, dopo averle saccheggiate. Entrarono anche nella fattoria e nella Villa di De Sgrilli, a Rovetino, minacciando il personale. Portarono via oggetti, generi alimentari e preziosi vari per circa mezzo milione. Roscioli, Vannozzi ed altri erano alla testa dei razziatori.

I nazifascisti cessarono di sparare per caricare sui camion, con delle cariole, i propri caduti, vittime dell'inganno dell'eroico Capriotti. La testimonianza dei trasportatori evidenziò un bilancio di 26 morti e di molti feriti. Lasciarono, con due camion che grondavano sangue, i casolari in fiamme di Rovetino.

Abbandonarono la zona anche per le proibitive condizioni atmosferiche. La tormenta di neve non offriva sufficiente visibilità. I patrioti ne approfittarono per ritirarsi a Castel di Croce, che raggiunsero dopo una faticosa marcia. Il tenente Paolini approfittò di questa tregua per sistemarsi a difesa e per riorganizzare la formazione, ma era ostacolato dalla ferocia e dall’odio di Roscioli, che non dava tregua.

Don Sante venne a sapere, da informatori, che i nazisti sarebbero tornati il 12 mattino presto.

In data 11 marzo 1944, a Castel di Croce, si riunirono i responsabili della formazione Paolini per cercare di evitare rappresaglie e un conseguente massacro di militari e civili. Decisero di sciogliere momentaneamente la formazione, in attesa di tempi migliori e di andare a rinforzare altre formazioni patriottiche. Proseguire la lotta in loco significava solo sacrificare altre vite.

L’ordine fu diramato ai patrioti nel pomeriggio. I locali e lo stesso Paolini restarono sul posto, alcuni si dispersero, altri si accinsero a raggiungere la formazione partigiana di Sarnano, più organizzata e maggiormente operativa. Le armi pesanti non trasferibili e le munizioni vennero nascoste nell’ossario del cimitero, con l’aiuto di Michetti; altre furono sotterrate in una scarpata.

Venne costituito sul posto un tribunale di guerra, formato da patrioti, per giudicare i prigionieri reclusi nella chiesetta di San Severino di Castel di Croce.

Carlo Vaccaro risultò essere un militante della Guardia nazionale repubblichina, di stanza in Ascoli Piceno, era chiamato “il fascista di Morignano“. Aveva rastrellato giovani renitenti ed era considerato settario e violento. Un giorno fu sorpreso in casa del parroco di Morignano a portare via, senza autorizzazione, del formaggio e delle uova. In precedenza aveva legato le mani al parroco per portarlo via. Il prete piangente riuscì a farsi liberare e tornare a casa. Confessò ai patrioti di essere stato mandato tra loro come infiltrato. Riconosciuto delatore, al servizio del nemico, fu condannato a morte. Don Sante, con il prestigio e l’autorità che lo caratterizzavano, riuscì ad evitare l’immediata esecuzione.

Alla sera i superstiti della disciolta formazione Paolini si trovarono in casa Pallotta, da cui si diressero verso Monsampietro, ove giunsero a notte inoltrata.

La probabile esecuzione di Vaccaro (non fu infatti mai trovato il cadavere, dopo la sua scomparsa) avvenne, durante il percorso, in tarda serata, per fatale necessità di sopravvivenza: era di certo più opportuno sacrificare la vita di un traditore piuttosto che quella dell'intera formazione.

O lui o tutti i patrioti, perché durante il tragitto, poteva rappresentare un grave pericolo, il cadavere non fu mai trovato. Gli altri due prigionieri, l’Adami e il sedicente comandante di patrioti, considerati regolari combattenti nemici, seguirono il gruppo.

All’alba del 12 marzo i nazifascisti erano pronti ad attaccare, dopo aver circondato Castel di Croce, con obici e mitragliatrici, artiglierie e autoblindo. L’attacco era atteso come prosecuzione di quello di Rovetino e anche per le notizie avute da Fausto Scaramucci e dal carabiniere Severino Cataldi, informatori di Don Sante e Paolini.

Le colonne nemiche, composte da 60 SS (molti parlavano perfettamente l’italiano), erano guidate da due ufficiali e da Roscioli. I “repubblichini” si divisero in due gruppi: uno, comandato da un ufficiale tedesco, puntò su Castel di Croce, l’altro, comandato da Roscioli, si diresse verso Monsampietro.

La neve era copiosa. I patrioti, parte della disciolta formazione Paolini, a Castel di Croce, nonostante lo scioglimento del gruppo, aiutati dagli abitanti, risposero a lungo all’attacco. Non smisero mai di sparare, pur essendo costretti a fuggire per salvarsi la vita; con molta abilità riuscirono a rompere l'accerchiamento e a disperdersi nella macchia, attorno al monte dell’Ascensione. Per continuare la battaglia servivano uomini vivi, più che eroi.

I tedeschi non dovevano attaccare subito perché attendevano rinforzi. Un cane chiamato “Stalin”, affezionato a Don Sante, fece saltare il loro piano perché si avventò contro uno di loro che stava per sparare al sacerdote. Scoperti, furono costretti ad affrontare i patrioti rimasti.

Il cane, oltre a Don Sante, salvò altri patrioti.

Una donna, durante una perquisizione a Castel di Croce, fingendo di andare a prendere del vino in cantina, corse verso la casa dove un patriota era rifugiato, per avvisarlo che i nazifascisti erano già a Castel di Croce. La madre di questo fortunato giovane era la cuoca dei patrioti. Altre donne si resero utili, medicando feriti e aiutando i ragazzi a riparare in rifugi sicuri, anche a costo della propria vita. Due donne di Castel di Croce Fabiani Domenica e Vagnoni Malvina furono ferite dai tedeschi, proprio perché, nelle loro case, davano ospitalità ai patrioti.

Don Sante, ferito lievemente, insieme a Valentino Grazioli e Giovanni Angelucci, riuscì a dileguarsi, trascinandosi sulla neve con un piede sanguinante. Su indicazione delle spie, i nazifascisti frugarono ovunque, particolarmente nella canonica e nelle abitazioni di Amedeo Antonelli, Bernardo Laurenzi e Lorenzo D’Armolatti. Non trovarono armi e munizioni, ma saccheggiarono qualunque cosa.

I patrioti arrivano a Monsampietro di Venarotta nelle primissime ore, chiesero alloggio, dichiarando di essere fuggiti ed inseguiti dai tedeschi e dai fascisti. Il primo gruppo composto da Paolini, Danesin, Tauro e Muzi si fermarono in casa di Ubaldi, in contrada Collina, gli altri si diressero verso il centro e bussarono a casa di Silvino Tondi che ospitava l’Adami, il sedicente comandante Michetti, Giotto Normussi e Nello Zanni. Asciugarono al fuoco gli abiti bagnati dalla neve, chiesero da mangiare e del latte per il mattino. Berton, Mazzocchi ed altri si sistemarono nelle case del centro. Alberto Michetti, che era un infiltrato, durante il trasferimento da Castel di Croce a Monsampietro, progettò la fuga, ma non trovò l’occasione giusta per realizzarla; all'alba riuscì a fuggire dalla casa di Tondi.

Michetti non sapeva però che suo zio Roscioli era diretto, nel frattempo, a Monsampietro, alla testa di uomini che indossavano tute mimetiche, in dotazione all'esercito tedesco, ma che parlavano un dialetto del Nord Italia. Roscioli, verso le 6.00, nei pressi di Montemoro, incontrò un contadino che, col suo asino, era diretto alla fiera di Montelparo. A lui Roscioli chiese notizie sui patrioti in fuga, braccati dai tedeschi, per poterli aiutare. Il contadino, ingenuamente, lo guidò sul posto, indicandogli le case ove erano rifugiati i partigiani. La frazione venne circondata e subito iniziò il rastrellamento.

Roscioli arrivò alla cascina Ubaldi con autoblindo e artiglieria per catturare i quattro patrioti. Entrò dalla stalla, la cui porta aprì con un colpo di arma da fuoco. Iniziò a sparare all’impazzata, intimando agli occupanti di uscire. Paolini e Muzi si gettarono dalla finestra che dava sui calanchi, gli altri in quella opposta, per dirottare eventuali inseguimenti. Paolini, cadendo sull’abbondante neve, coperto dalla bufera e da un pagliaio, riuscì a passare il blocco e a proseguire la sua fuga verso i calanchi. Muzi fu catturato e torturato, perché riconosciuto dal Roscioli, quale componente la spedizione fatta a casa sua nel febbraio precedente. Roscioli propose ai tedeschi di fucilarlo, ma questi si rifiutarono, in quanto disarmato. Arrestato venne tradotto nelle carceri di Ascoli Piceno dove trovò Giuseppe Tempestilli. Pasquale Ubaldi, che con il figlio Amedeo si trovava nei campi, all’udire gli spari tornò verso casa e, vedendo i tedeschi, nascose il figlio. Arrivato a casa venne arrestato e rinchiuso insieme ai familiari. Roscioli, nel perquisire la casa, trovò Luigi Ubaldi infermo e minorato, che, non potendosi alzare dal letto, venne minacciato di morte. Livio Danesin e Antonio Tauro vennero catturati. Quest'ultimo, già ferito ad una mano ed al torace, ormai in fin di vita, non riuscì a muoversi. Livio Danesin, riconosciuto dal Roscioli, si senti dire: “io sono quello al quale hai svaligiato la casa. Dov’è Paolini?”. Roscioli, non avendo ricevuto risposta, gli mollò uno schiaffone. Il Danesin fu obbligato a scavarsi la fossa, con pala e zappa, aiutato da Pasquale Ubaldi. Tutto accadde alla presenza di tutta la famiglia Ubaldi, compreso un ragazzino di appena 5 anni di nome Luigi, a 50 metri dalla loro casa colonica.

Danesin, scavando, cantava “bandiera rossa” e, quando gl'intimarono di tacere, non avendo più nulla da perdere, si avventò contro il nemico con la pala, ricevendo immediatamente una scarica di mitra. Cadde vicino al corpo del suo compagno Tauro, che era già spirato. Gli aguzzini, accortisi che non era morto, gli spararono altri colpi di pistola al cuore e uno, sempre allegro, ma anche temerario; in combattimento diceva al compagno vicino: “Ma che ti accucci si spara e via. La pallottola per me non è stata ancora fatta”.

Roscioli suggerì ai tedeschi di bruciare la casa di Ubaldi, ma questi si rifiutarono, perché nessuno dei fermati era stato trovato con le armi in mano. Roscioli, allontanatosi, decise di tornare subito indietro, quando venne informato che Danesin era stato sepolto con gli stivali, a lui sottratti, durante la spedizione punitiva del Paolini a Monterinaldo. Non esitò a far riesumare le salme pur di riprendersi gli stivali e i valori che le povere vittime a alla bocca. Fu sepolto con Tauro, nella fossa da lui stesso scavata. Bella persona il Danesinvevano addosso. Fu uno scempio in aperta violazione della Convenzione di Ginevra, ma anche contro il comune sentimento di pietà nei confronti dei defunti.

Si diressero verso l’abitato di Monsampietro. Italo Rafin, che stava portando il latte ai patrioti, a casa di Silvino Tondi, quando vide i militari accelerò la corsa e, nel portare a termine la consegna, dette l'allarme del loro imminente arrivo. Tondi salì per avvisare i patrioti e, mentre stava scendendo, si trovò di fronte i nazifascisti, capeggiati da Roscioli, chiamato dai suoi armati “Mozzè”. Roscioli e i suoi salirono al piano superiore e si fermarono sul pianerottolo della scala, intimando ai rifugiati di scendere. Il primo ad eseguire l'ordine fu Michetti, il quale, nonostante fosse stato avvisato da Mancini dell'arrivo dei militari, non si preoccupò, anzi, appena visto lo zio Roscioli, scambiò con lui poche parole, sottovoce, rimanendo armato.

Michetti era un infiltrato, al servizio della 5° compagnia tedesca. Dai procedimenti penali risulta che Adami, non solo non avrebbe obbedito all’intimazione di alzare le mani, ma avrebbe aggredito Roscioli, per disarmarlo, invitandolo poi a non sparare, qualificandosi un agente di P. S. Nell’azione Roscioli esplose un colpo di pistola, diretto al volto di Adami, che, riparandosi, rimase ferito di striscio ad una mano. Adami tentò di fuggire, ma venne subito raggiunto da due colpi di pistola all’anca, sparati dal Roscioli, seguiti da una raffica, sparata dal mitra di un tedesco, che andò a vuoto. Cadde a terra. Roscioli riconoscendo l'appartenenza di Adami all'arma di P.S., viste le sue precarie condizioni lo fece trasportare al vicino spaccio di sale e tabacchi, chiedendo alla proprietaria, moglie di Francesco Tondi, il necessario per le medicazioni. Essendone quest'ultima sprovvista, venne medicato alla meglio da un militare tedesco. Adami conosceva Roscioli a causa della sua ferocia che gli aveva fatto guadagnare l'appellativo di “celebre”.

Dopo la medicazione. Roscioli si rivolse allora al ferito, dicendogli: “Volevi fare le scarpe a me? Ma non sai che io sono Roscioli e so sparare bene, lo vedi?”, indicando le ferite. Così egli si assumeva la responsabilità del ferimento. Il feroce squadrista si procurò una coperta per Adami e ne dispose il trasporto all’ospedale di Force. Allo spaccio arrivò Francesco Tondi, proprietario del negozio, accompagnato da un tedesco, che lo aveva trovato nei campi senza documenti. Adami si rivolse anche a lui per essere aiutato. Nel frattempo Mario Mazzocchi, che faceva parte del gruppo dei partigiani catturati in precedenza, riuscì a fuggire ma, una donna del posto, credendo fosse suo figlio, lo chiamò gridando, allertando così due mitraglieri, appostati sul Colle della Croce, che fecero partire delle raffiche colpendo il sambenedettese al polpaccio. Mazzocchi si fermò per arrestare l’emorragia, servendosi della cinta dei pantaloni, ma, raggiunto dai repubblichini e da Roscioli, venne da questi insultato. Mentre si professava orgoglioso di morire per la Patria, Mazzocchi ricevette barbaramente due colpi di pistola alla testa, che lo finirono. Venne seppellito nel cimitero di Portella di Venarotta."...


DAL LIBRO DI ELIO TREMAROLI "Cari ragazzi".






sabato 16 dicembre 2023

FOIBE: conoscenza della storia

 








Prof.Tomaso Montanari, rettore dell'Università per gli Stranieri di Siena, DISSERTA SULLA CULTURA E LA FORMAZIONE DEL PENSIERO CRITICO




C’è una voragine nera nella memoria italiana: il lager fascista di Rab. È tempo di chiedere scusa

  Gianfranco Pagliarulo Presidente nazionale ANPI

Sabato 9 settembre ero con altri dirigenti dellAnpi su di una ridente isola della costiera croata, grande poco più di un terzo dellisola dElba e riscaldata da un sole ancora estivo. Quellisola si chiama Rab, in italiano Arbe.

In una località di Rab – Kampor entrò in funzione nel 1942 un campo di concentramento creato dalla II Armata italiana, ai tempi delloccupazione della ex Jugoslavia che si avviò il 6 aprile 1941 attraverso lintervento combinato dellesercito italiano, di quello tedesco e di quello ungherese. Il campo di concentramento ospitò un numero imprecisato di persone, prevalentemente slovene, da 10 a 15mila internati di cui circa 2.000 donne e circa 1.000 bambini. Le condizioni di internamento – percosse, punizioni, malattie, fame – furono tali da determinare la morte di circa 1.500 deportati, forse molti di più. 

I criminali di guerra italiani non sono mai stati puniti. I rappresentanti dello Stato italiano non si sono mai recati in veste istituzionale sullisola, né mai è stata pronunciata una parola di scusa in merito.

Il 9 settembre di questanno, sulla terra dovera stato montato il campo e che aveva inghiottito tante vittime innocenti, si è celebrato l80° anniversario della liberazione del campo, ancora una volta in assenza di autorità istituzionali italiane. 

Erano presenti alcune migliaia di persone – credo circa 3.000 -, molte delle quali provenienti dalla Slovenia. E cera anche un nutrito gruppo di italiani, alcuni organizzati dallo storico Eric Gobetti, altri – due pullman – organizzati dallAnpi del Friuli Venezia Giulia, di Piacenza e di Reggio Emilia.

Hanno parlato il Presidente della Repubblica croata e la Presidente della Repubblica slovena, il sindaco di Arbe, i tre Presidenti delle Associazioni partigiane slovena, croata e italiana, in un clima di commozione, emozione e comunione della gente di tante nazionalità. Ho concluso il mio intervento con queste parole: Senza mai dimenticare cosa avvenne in questisola, nel nome di tutte le vittime, nella denuncia e nella esecrazione dei responsabili, andiamo avanti tenendoci per mano”.

A proposito di Kampor, il generale Gastone Gambara affermò: Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato uguale individuo che sta tranquillo”.

In una apposita circolare il generale Mario Robotti scrisse: Il territorio in cui ci si muove è un campo di battaglia”; tutti devono essere considerati nostri nemici”; non si devono fare prigionieri”. Di conseguenza si ammazza troppo poco”. Nella più famosa circolare del generale darmata Mario Roatta, la circolare 3C emanata il 1° marzo 1942, si leggeva: Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, bensì da quella testa per dente’”. Questa fu la logica della gestione del campo di internamento che può essere ragionevolmente definito un lager.

Eppure in Italia, nel mio Paese, c’è silenzio, un silenzio rumoroso, ipocrita, sacrilego, a protezione e copertura di una mitologia non più presentabile, di una retorica falsa e bugiarda che dal dopoguerra ha minimizzato o nascosto crimini che non sono mai stati puniti: italiani brava gente”. Le indicazioni furono date da Benito Mussolini. Gli esecutori furono molti generali italiani. Dai gas asfissianti in Etiopia, dalla strage di Debra Libano, presso Addis Abeba, dalla deportazione di un intero popolo in Libia fino alle violenze, ai massacri, alle fucilazioni per rappresaglia, agli incendi nella ex Jugoslavia, oggi, grazie alla ricerca storica, appare in tutto il suo orrore la cruda verità dellespansionismo fascista, mai contrastato da Vittorio Emanuele.

C’è un non detto: difendere lonore del Paese. Ecco, nascondendo, omettendo, falsificando, si perde lonore, si umilia la dignità nazionale, si manifesta clamorosamente una debolezza storica. Ricordare perciò gli eccidi delle foibe e la tragedia dellesodo è giusto e doveroso.

Rimuovere gli scenari di sangue e di morte causati dal fascismo in cui si sono collocati e da cui sono stati in parte causati quei drammi è francamente una vergogna nazionale che serve – e quanto è servita! – soltanto alla destra estrema, che dallultimo decennio del 900 ha operato al fine di una progressiva riabilitazione del fascismo e di una continua denigrazione della Resistenza.

Oggi, sotto lombra di un governo che combina lispirazione sovranista” con la più acritica e bellicistica dipendenza dagli Stati Uniti, si espande la voragine nera della memoria nazionale. 

Nel lontano 1920 Mussolini affermò a Pola: Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone”. Il nazionalismo, lespansionismo, la violenza armata come strumento principale della politica, il razzismo, erano e sono lessenza, il cuore del fascismo storico e di qualsiasi fascismo.

Ad Arbe ho ascoltato linno nazionale sloveno e linno nazionale croato. Non linno nazionale italiano. Ad Arbe ho visto sventolare la bandiera croata e la bandiera slovena. Non il Tricolore. Il 7 dicembre 1970 il Cancelliere tedesco Willy Brandt si inginocchiava davanti al monumento alle vittime al Ghetto di Varsavia. In Italia c’è silenzio. Come se non fosse mai successo niente. O, se successo, come se fosse giusto, normale, dovuto. Fascisti di ieri e silenzi di oggi.

È tempo di voltare pagina. È tempo di chiedere perdono.

martedì 12 dicembre 2023

MANIFESTAZIONE PER LA PACE

12 DICEMBRE 2023
MANIFESTAZIONE PER LA PACE, CONTRO TUTTE LE GUERRE
IN PIAZZA GIORGINI A SAN BENEDETTO DEL TRONTO



FERMIAMO LE GUERRE: LA PACE PRIMA DI TUTTO


Questo è il messaggio che l’ANPI, i partiti, i sindacati e le associazioni vogliono inviare alle istituzioni italiane, europee e mondiali affinché si ponga fine a questi orribili stermini.

Ormai è il tempo di convincersi che non esiste più la guerra limitata agli eserciti, ma che qualsiasi guerra colpisce in modo più o meno devastante le popolazioni civili. E tutto ciò sposta obiettivamente i termini della questione, perché la forma della guerra contemporanea è sempre più in sé e per sé criminale. Nel nostro nuovo tempo di terrore senza equilibrio si è parlato e si parla dell’arma atomica come di un’eventualità, certo ultima, improbabile, esecrabile, ma possibile a determinate condizioni. 

Ma l'ANPI grazie alla memoria attiva di stragi di civili in conflitti armati ne è testimone e ne ha la memoria storica, gli italiani sono stati prima carnefici durante le occupazioni coloniali fasciste in Africa, poi nelle invasioni dei Paesi dell’Est Europa al fianco dei nazisti, per divenire vittime di Wermacht ed SS durante la loro ritirata fin da subito dopo lo sbarco alleato, in una mappa dell’orrore che dal Sud al Nord si fece sempre più crescente ed efferato con una violenza su bambini, donne, vecchi e malati sconosciuta ad altre regioni dell’Europa occidentale. L’esperienza del passato vogliamo che incida sulla situazione presente.

Per questo condanniamo l’ignobile e brutale atto di aggressione di Hamas contro la popolazione civile Israeliana, contro anziani, bambini, donne, in spregio di ogni elementare senso di umanità e di civiltà, alla quale si è aggiunta la barbara pratica della presa di ostaggi con l’uccisione di 823 civili e 321 soldati. Non vi è giustificazione alcuna per l’operato di Hamas. Neppure la disperazione e l’esasperazione del popolo Palestinese, vittima da decenni dell’occupazione, della restrizione delle libertà, della demolizione delle case, dell'espropriazione dei terreni e delle continue provocazioni delle frange radicali della destra israeliana e dei coloni può trovare una risposta nell’azione terroristica e militare.

Hamas deve immediatamente rilasciare gli ostaggi e cessare le ostilità per il bene del popolo palestinese.
  Non vi è giustificazione alcuna che Israele abbia reagito con la sua potenza militare contro la popolazione della Striscia di Gaza o usare la rappresaglia togliendo cibo, luce, acqua ad una popolazione ostaggio senza vie di fuga ed impossibilitata a proteggere le famiglie, i bambini e gli anziani.

La nostra condanna contro ogni forma di violenza, di aggressione e di rappresaglia contro la popolazione Palestinese che ha portato alla distruzione di Gaza, alla morte di oltre 14.00 civili tra cui 4.630 bambini e 3.130 donne è assoluta.

Il 7 ottobre segna una radicale svolta militare, di guerra, che porterà nuove vittime e nuovo odio senza risolvere le cause che, da quasi un secolo, travolgono la popolazione e la terra di Palestina e d’Israele. È evidente per di più il rischio imponderabile del conflitto che potrebbe travolgere il Medio Oriente.
  Solo con il rifiuto della guerra e della violenza possiamo tutti impegnarci per costruire giustizia, rispetto per i diritti di autodeterminazione delle due popolazioni, riparazione, convivenza, pace giusta e duratura.
  Ci appelliamo al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite affinché assuma la propria responsabilità di organo garante del diritto internazionale chiedendo alle parti l’immediato cessate il fuoco, il rilascio degli ostaggi e dei prigionieri, il rispetto del diritto umanitario per evitare ulteriore spargimento di sangue, con l’impegno di convocare, con urgenza, una Conferenza di pace che risolva, finalmente, la questione Palestinese applicando la formula dei “due Stati per i due Popoli”, condizione che porrebbe fine all’occupazione Israeliana ed alla resistenza armata Palestinese, ristabilendo così le condizioni per la costruzione di società pacifiche e democratiche. 

L’ANPI insieme ai partiti, alle istituzioni, all’associazionismo democratico, al volontariato, al mondo del lavoro, che hanno aderito alla nostra iniziativa, non vuole restare indifferente a questa disumanità. 

Firmato: Rete Studenti Medi - Associazione Buon Vento- S.O.S. Missionario-CGIL-CISL-UIL-Partito Democratico-Movimento 5 Stelle-Verdi-Articolo Uno-Rifondazione Comunista-Sinistra Italiana-Partito Socialista-NOS.









 

Commemorazione dell'eccidio nazista dei patrioti Neutro e Salvatore Spinozzi e del carabiniere Elio Fileni, in località Ponterotto, il 12 giugno 1944.

SAN BENEDETTO DEL TRONTO, LOCALITA' PONTEROTTO, 12 GIUGNO 2024 Dall’aprile del 1944 le formazioni partigiane operanti nel nostro territo...