... " All’alba del 9 marzo 1944 i patrioti si appostarono nel bosco di Rovetino, sul Colle San Severino, nella boscaglia Pierantozzi, a circa 200 metri dalla parrocchiale di Castel di Croce.
Il tempo era avverso, perché la neve continuava a cadere e le bufere erano sempre più intense, compromettendo così la visibilità e le possibilità di spostamento. I patrioti nascosero sotto la neve, sul lato Nord del castello, 135 casse di munizioni per renderne più facile il recupero a fine scontro, a seguito del necessario trasferimento dal centro abitato alla caserma D’Armolatti. Osservando questi preparativi, che prevedevano un attacco nemico, i prigionieri anglo-americani, per non essere coinvolti, si dileguarono. I patrioti erano preoccupati ma pronti, nonostante il fatto che Paolini e Berton fossero febbricitanti.
Paolini, con un drappello formato da quattro uomini fidati, si portò in contrada Croce Rossa per accertare la consistenza delle forze nemiche, rientrando rapidamente alla base, dopo una breve sosta nella casa di Giovanni Gaspari. Dieci minuti dopo due fascisti di Montelparo, qualificatisi patrioti, ma in realtà collaboratori dei tedeschi in avanscoperta, entrarono nella stessa casa al fine di acquisire utili informazioni sulla dislocazione territoriale delle formazioni partigiane. Uno di questi venne riconosciuto perché si era presentato al Gaspari alcuni giorni prima con la stessa motivazione. Chiesero cibo e il Gaspari che non diceva mai no provvide, ma poco dopo la casa fu occupata dal grosso dei nazifascisti con a capo Roscioli che obbligò le donne ad abbandonarla ed il proprietario Giovanni a seguirli. Lungo il sentiero per Rovetino rastrellarono tutti gli uomini incontrati ai quali sottrassero tutto ciò che avevano addosso. A un commerciante, certo Postacchini, venne tolta una somma ingente, destinata a pagare i contadini, per la vendita di semi di erba medica. I fermati, infine, vennero rinchiusi nella chiesetta di Rovetino.
I patrioti avevano ricevuto informazioni su un eventuale attacco dei tedeschi, previsto per le ore 9.00, che non si verificò, per cui ne approfittarono per consolidare le posizioni.
Un maresciallo dei repubblichini, certo Carlo Vaccaro, si presentò al comando di Castel di Croce disarmato con le mani in alto, dichiarandosi pentito, gridò: “Giuro di combattere contro i tedeschi”. A Berton venne il sospetto che si trattasse di spia fascista e, nel timore che potesse creare scompiglio fra i partigiani, lo arrestò, chiudendolo nella prigione con l’agente di pubblica sicurezza Adami e il sedicente comandante dei patrioti, catturati il giorno prima. Alle 10.30, quattro colonne tedesche guidate da fascisti, muniti di armi pesanti ed automatiche, provenienti da direzioni diverse, mossero alla volta di Rovetino.
Accerchiare i patrioti e stringerli in un anello di ferro e di fuoco significava per le truppe tedesche chiudere ogni via di fuga, attraverso le vallate dell’Aso e del Tesino, a cavallo delle quali si erge il bastione naturale di Rovetino. In quei luoghi infatti erano appostati i patrioti.
Una frana enorme sulla provinciale Venarotta-Force, nei pressi di Villa Teodori, bloccò una colonna tedesca di circa 20 automezzi. Per questo ostacolo, che procurò un ritardo di tre ore, il settore di Castel di Croce non fu sorpreso alle spalle. A mala pena i tedeschi raggiunsero Rovetino. Il rombo dei motori che si sentiva dalla contrada Croce Rossa dette l’allarme e gli eroici patrioti si prepararono al combattimento.
Poco prima di mezzogiorno si scatenò l’offensiva con l’evidente obiettivo di accerchiare Rovetino. Le artiglierie tedesche iniziarono a colpire ripetutamente la selva e, con le armi leggere, tentarono di mettere in difficoltà i patrioti, che, nella neve, tra forre e boscaglia, lottarono e si difesero accanitamente, in uno scontro a fuoco della durata di circa tre ore. Paolini inviò una staffetta per chiedere rinforzi a Berton, ordinando il ripiegamento verso Castel di Croce. Il combattimento si inasprì in località “Vigneto”; la formazione si aprì un varco, nel tentativo di sottrarsi alla morsa delle forze nemiche. Furono costretti al ripiegamento per non rischiare la totale distruzione dei reparti e l'esaurimento delle munizioni. Questa manovra fu possibile grazie alla perfetta conoscenza dell’accidentato territorio che consentì alla formazione, con una faticosa marcia, di portarsi a Sud e raggiungere Castel di Croce.
Le sparatorie aumentarono e si spostarono in senso concentrico verso il caposaldo, detto “la Torretta” che è il colle più alto di Rovetino. Alcune granate colpirono i due pagliai della casa colonica D’Angelo, ove erano nascoste le munizioni, che scoppiarono con detonazioni paurose. Berton, per disorientare il nemico, cambiò l’avamposto a Castel di Croce. Invece di puntare su Rovetino, si diresse verso il bosco “Pierantozzi”, dove esisteva una mulattiera coperta e vi piazzò una mitragliatrice; un’altra venne posta nei pressi della chiesa vicino al cimitero. Si continuò a sparare, nel tentativo di accerchiare i tedeschi in zona Poggio Canoso. L' azione, anche se poco efficace, disturbò e disorientò il nemico. Due uomini di Berton, Pino Sebastiani con una mitragliatrice e Livio Danesin, detto “Fulmine” con un fucile mitragliatore, sentendo gli scoppi da Rovetino, da un’ottima postazione, non permisero ai tedeschi di avanzare, sparando fino all’ultima cartuccia e, con le armi in mano, raggiunsero Castel di Croce. Gino Capriotti, che faceva parte di quella formazione, nonostante l’invito dei compagni ad abbandonare la postazione e mettersi in salvo, resistette eroicamente nonostante il fuoco falciante del nemico, con le sue due mitragliatrici: una tedesca e una Breda, che manovrava perfettamente. Fu una valorosa resistenza quella di Gino Capriotti, che, attraverso i suoi spostamenti continui da una postazione all'altra e da un' arma all'altra, riuscì a far credere che fossero in tanti a sparare. Ecco in dettaglio la dinamica dei fatti.
La frana nei pressi di Montemoro costrinse i tedeschi a dirigersi verso il Tesino per raggiungere i posti di accerchiamento. Quando giunsero a destinazione, attaccarono i repubblichini, sopraggiunti nel frattempo, ingannati dal fatto che il fuoco delle mitragliatrici, azionate dal Capriotti, provenivano dalla stessa direzione. Quando si accorsero che si stavano sparando fra loro fu troppo tardi. I repubblichini raggiunta la “Torretta” di Rovetino, si resero conto che quella postazione era controllata da un solo partigiano. Capriotti, ferito dal fuoco tedesco, esaurite le munizioni, con sulle spalle le due mitragliatrici, si diresse verso il bosco, lasciando tracce di sangue sulla neve. Venne presto raggiunto, catturato e malmenato. Quasi morente, nell’aia di D’Angelo detto “Gnelò”, venne sgozzato dai repubblichini, come un tempo si usava fare con i cinghiali; ricevette ben sette colpi di baionetta. Tanta crudeltà e ferocia erano alimentate da sentimenti di odio e vendetta, che portò i fascisti ad agire senza tener conto delle normali convenzioni umanitarie, doverose in tempo di guerra, ma mai applicate in conflitti civili.
Gino Capriotti, contadino, detto “Gino il rosso” per il colore dei suoi capelli o “Saltamacchia” perché non aveva un posto fisso e vagabondava per i campi, soddisfatto di quella sua vita. Era nato nel 1921 a Petritoli, in contrada Solagna. Era molto affiatato con il tenente Paolini, lo seguiva sempre, era coraggioso, si offriva sempre per le missioni più rischiose, come in quest’ultima circostanza.
Nella notte Paolini rischiò la vita per recuperare la salma abbandonata di Capriotti per dargli degna sepoltura. Era scalzo, non aveva più le scarpe donategli da Don Sante. Capriotti si era sacrificato per i suoi compagni.
La casa colonica di D’Angelo Luigi, quale base di patrioti, dopo essere stata spogliata di tutto, anche del bestiame, venne data alle fiamme dai fascisti, guidati dal noto Bixio di Montalto, con i familiari chiusi dentro; questi saltarono dalle finestre e si dettero ad una precipitosa fuga. Le cognate Maria Mariani e Rosa Pasqualini furono ferite mentre la figlia di “Gnelò” Carolina fu arrestata e tradotta nelle carceri di Force. Le donne ferite, soccorse dai vicini, adagiate su due scale, a guisa di barella, furono trasferite all’ospedale di Offida. I nazifascisti con rabbia e ferocia bruciarono altre case di contadini, dopo averle saccheggiate. Entrarono anche nella fattoria e nella Villa di De Sgrilli, a Rovetino, minacciando il personale. Portarono via oggetti, generi alimentari e preziosi vari per circa mezzo milione. Roscioli, Vannozzi ed altri erano alla testa dei razziatori.
I nazifascisti cessarono di sparare per caricare sui camion, con delle cariole, i propri caduti, vittime dell'inganno dell'eroico Capriotti. La testimonianza dei trasportatori evidenziò un bilancio di 26 morti e di molti feriti. Lasciarono, con due camion che grondavano sangue, i casolari in fiamme di Rovetino.
Abbandonarono la zona anche per le proibitive condizioni atmosferiche. La tormenta di neve non offriva sufficiente visibilità. I patrioti ne approfittarono per ritirarsi a Castel di Croce, che raggiunsero dopo una faticosa marcia. Il tenente Paolini approfittò di questa tregua per sistemarsi a difesa e per riorganizzare la formazione, ma era ostacolato dalla ferocia e dall’odio di Roscioli, che non dava tregua.
Don Sante venne a sapere, da informatori, che i nazisti sarebbero tornati il 12 mattino presto.
In data 11 marzo 1944, a Castel di Croce, si riunirono i responsabili della formazione Paolini per cercare di evitare rappresaglie e un conseguente massacro di militari e civili. Decisero di sciogliere momentaneamente la formazione, in attesa di tempi migliori e di andare a rinforzare altre formazioni patriottiche. Proseguire la lotta in loco significava solo sacrificare altre vite.
L’ordine fu diramato ai patrioti nel pomeriggio. I locali e lo stesso Paolini restarono sul posto, alcuni si dispersero, altri si accinsero a raggiungere la formazione partigiana di Sarnano, più organizzata e maggiormente operativa. Le armi pesanti non trasferibili e le munizioni vennero nascoste nell’ossario del cimitero, con l’aiuto di Michetti; altre furono sotterrate in una scarpata.
Venne costituito sul posto un tribunale di guerra, formato da patrioti, per giudicare i prigionieri reclusi nella chiesetta di San Severino di Castel di Croce.
Carlo Vaccaro risultò essere un militante della Guardia nazionale repubblichina, di stanza in Ascoli Piceno, era chiamato “il fascista di Morignano“. Aveva rastrellato giovani renitenti ed era considerato settario e violento. Un giorno fu sorpreso in casa del parroco di Morignano a portare via, senza autorizzazione, del formaggio e delle uova. In precedenza aveva legato le mani al parroco per portarlo via. Il prete piangente riuscì a farsi liberare e tornare a casa. Confessò ai patrioti di essere stato mandato tra loro come infiltrato. Riconosciuto delatore, al servizio del nemico, fu condannato a morte. Don Sante, con il prestigio e l’autorità che lo caratterizzavano, riuscì ad evitare l’immediata esecuzione.
Alla sera i superstiti della disciolta formazione Paolini si trovarono in casa Pallotta, da cui si diressero verso Monsampietro, ove giunsero a notte inoltrata.
La probabile esecuzione di Vaccaro (non fu infatti mai trovato il cadavere, dopo la sua scomparsa) avvenne, durante il percorso, in tarda serata, per fatale necessità di sopravvivenza: era di certo più opportuno sacrificare la vita di un traditore piuttosto che quella dell'intera formazione.
O lui o tutti i patrioti, perché durante il tragitto, poteva rappresentare un grave pericolo, il cadavere non fu mai trovato. Gli altri due prigionieri, l’Adami e il sedicente comandante di patrioti, considerati regolari combattenti nemici, seguirono il gruppo.
All’alba del 12 marzo i nazifascisti erano pronti ad attaccare, dopo aver circondato Castel di Croce, con obici e mitragliatrici, artiglierie e autoblindo. L’attacco era atteso come prosecuzione di quello di Rovetino e anche per le notizie avute da Fausto Scaramucci e dal carabiniere Severino Cataldi, informatori di Don Sante e Paolini.
Le colonne nemiche, composte da 60 SS (molti parlavano perfettamente l’italiano), erano guidate da due ufficiali e da Roscioli. I “repubblichini” si divisero in due gruppi: uno, comandato da un ufficiale tedesco, puntò su Castel di Croce, l’altro, comandato da Roscioli, si diresse verso Monsampietro.
La neve era copiosa. I patrioti, parte della disciolta formazione Paolini, a Castel di Croce, nonostante lo scioglimento del gruppo, aiutati dagli abitanti, risposero a lungo all’attacco. Non smisero mai di sparare, pur essendo costretti a fuggire per salvarsi la vita; con molta abilità riuscirono a rompere l'accerchiamento e a disperdersi nella macchia, attorno al monte dell’Ascensione. Per continuare la battaglia servivano uomini vivi, più che eroi.
I tedeschi non dovevano attaccare subito perché attendevano rinforzi. Un cane chiamato “Stalin”, affezionato a Don Sante, fece saltare il loro piano perché si avventò contro uno di loro che stava per sparare al sacerdote. Scoperti, furono costretti ad affrontare i patrioti rimasti.
Il cane, oltre a Don Sante, salvò altri patrioti.
Una donna, durante una perquisizione a Castel di Croce, fingendo di andare a prendere del vino in cantina, corse verso la casa dove un patriota era rifugiato, per avvisarlo che i nazifascisti erano già a Castel di Croce. La madre di questo fortunato giovane era la cuoca dei patrioti. Altre donne si resero utili, medicando feriti e aiutando i ragazzi a riparare in rifugi sicuri, anche a costo della propria vita. Due donne di Castel di Croce Fabiani Domenica e Vagnoni Malvina furono ferite dai tedeschi, proprio perché, nelle loro case, davano ospitalità ai patrioti.
Don Sante, ferito lievemente, insieme a Valentino Grazioli e Giovanni Angelucci, riuscì a dileguarsi, trascinandosi sulla neve con un piede sanguinante. Su indicazione delle spie, i nazifascisti frugarono ovunque, particolarmente nella canonica e nelle abitazioni di Amedeo Antonelli, Bernardo Laurenzi e Lorenzo D’Armolatti. Non trovarono armi e munizioni, ma saccheggiarono qualunque cosa.
I patrioti arrivano a Monsampietro di Venarotta nelle primissime ore, chiesero alloggio, dichiarando di essere fuggiti ed inseguiti dai tedeschi e dai fascisti. Il primo gruppo composto da Paolini, Danesin, Tauro e Muzi si fermarono in casa di Ubaldi, in contrada Collina, gli altri si diressero verso il centro e bussarono a casa di Silvino Tondi che ospitava l’Adami, il sedicente comandante Michetti, Giotto Normussi e Nello Zanni. Asciugarono al fuoco gli abiti bagnati dalla neve, chiesero da mangiare e del latte per il mattino. Berton, Mazzocchi ed altri si sistemarono nelle case del centro. Alberto Michetti, che era un infiltrato, durante il trasferimento da Castel di Croce a Monsampietro, progettò la fuga, ma non trovò l’occasione giusta per realizzarla; all'alba riuscì a fuggire dalla casa di Tondi.
Michetti non sapeva però che suo zio Roscioli era diretto, nel frattempo, a Monsampietro, alla testa di uomini che indossavano tute mimetiche, in dotazione all'esercito tedesco, ma che parlavano un dialetto del Nord Italia. Roscioli, verso le 6.00, nei pressi di Montemoro, incontrò un contadino che, col suo asino, era diretto alla fiera di Montelparo. A lui Roscioli chiese notizie sui patrioti in fuga, braccati dai tedeschi, per poterli aiutare. Il contadino, ingenuamente, lo guidò sul posto, indicandogli le case ove erano rifugiati i partigiani. La frazione venne circondata e subito iniziò il rastrellamento.
Roscioli arrivò alla cascina Ubaldi con autoblindo e artiglieria per catturare i quattro patrioti. Entrò dalla stalla, la cui porta aprì con un colpo di arma da fuoco. Iniziò a sparare all’impazzata, intimando agli occupanti di uscire. Paolini e Muzi si gettarono dalla finestra che dava sui calanchi, gli altri in quella opposta, per dirottare eventuali inseguimenti. Paolini, cadendo sull’abbondante neve, coperto dalla bufera e da un pagliaio, riuscì a passare il blocco e a proseguire la sua fuga verso i calanchi. Muzi fu catturato e torturato, perché riconosciuto dal Roscioli, quale componente la spedizione fatta a casa sua nel febbraio precedente. Roscioli propose ai tedeschi di fucilarlo, ma questi si rifiutarono, in quanto disarmato. Arrestato venne tradotto nelle carceri di Ascoli Piceno dove trovò Giuseppe Tempestilli. Pasquale Ubaldi, che con il figlio Amedeo si trovava nei campi, all’udire gli spari tornò verso casa e, vedendo i tedeschi, nascose il figlio. Arrivato a casa venne arrestato e rinchiuso insieme ai familiari. Roscioli, nel perquisire la casa, trovò Luigi Ubaldi infermo e minorato, che, non potendosi alzare dal letto, venne minacciato di morte. Livio Danesin e Antonio Tauro vennero catturati. Quest'ultimo, già ferito ad una mano ed al torace, ormai in fin di vita, non riuscì a muoversi. Livio Danesin, riconosciuto dal Roscioli, si senti dire: “io sono quello al quale hai svaligiato la casa. Dov’è Paolini?”. Roscioli, non avendo ricevuto risposta, gli mollò uno schiaffone. Il Danesin fu obbligato a scavarsi la fossa, con pala e zappa, aiutato da Pasquale Ubaldi. Tutto accadde alla presenza di tutta la famiglia Ubaldi, compreso un ragazzino di appena 5 anni di nome Luigi, a 50 metri dalla loro casa colonica.
Danesin, scavando, cantava “bandiera rossa” e, quando gl'intimarono di tacere, non avendo più nulla da perdere, si avventò contro il nemico con la pala, ricevendo immediatamente una scarica di mitra. Cadde vicino al corpo del suo compagno Tauro, che era già spirato. Gli aguzzini, accortisi che non era morto, gli spararono altri colpi di pistola al cuore e uno, sempre allegro, ma anche temerario; in combattimento diceva al compagno vicino: “Ma che ti accucci si spara e via. La pallottola per me non è stata ancora fatta”.
Roscioli suggerì ai tedeschi di bruciare la casa di Ubaldi, ma questi si rifiutarono, perché nessuno dei fermati era stato trovato con le armi in mano. Roscioli, allontanatosi, decise di tornare subito indietro, quando venne informato che Danesin era stato sepolto con gli stivali, a lui sottratti, durante la spedizione punitiva del Paolini a Monterinaldo. Non esitò a far riesumare le salme pur di riprendersi gli stivali e i valori che le povere vittime a alla bocca. Fu sepolto con Tauro, nella fossa da lui stesso scavata. Bella persona il Danesinvevano addosso. Fu uno scempio in aperta violazione della Convenzione di Ginevra, ma anche contro il comune sentimento di pietà nei confronti dei defunti.
Si diressero verso l’abitato di Monsampietro. Italo Rafin, che stava portando il latte ai patrioti, a casa di Silvino Tondi, quando vide i militari accelerò la corsa e, nel portare a termine la consegna, dette l'allarme del loro imminente arrivo. Tondi salì per avvisare i patrioti e, mentre stava scendendo, si trovò di fronte i nazifascisti, capeggiati da Roscioli, chiamato dai suoi armati “Mozzè”. Roscioli e i suoi salirono al piano superiore e si fermarono sul pianerottolo della scala, intimando ai rifugiati di scendere. Il primo ad eseguire l'ordine fu Michetti, il quale, nonostante fosse stato avvisato da Mancini dell'arrivo dei militari, non si preoccupò, anzi, appena visto lo zio Roscioli, scambiò con lui poche parole, sottovoce, rimanendo armato.
Michetti era un infiltrato, al servizio della 5° compagnia tedesca. Dai procedimenti penali risulta che Adami, non solo non avrebbe obbedito all’intimazione di alzare le mani, ma avrebbe aggredito Roscioli, per disarmarlo, invitandolo poi a non sparare, qualificandosi un agente di P. S. Nell’azione Roscioli esplose un colpo di pistola, diretto al volto di Adami, che, riparandosi, rimase ferito di striscio ad una mano. Adami tentò di fuggire, ma venne subito raggiunto da due colpi di pistola all’anca, sparati dal Roscioli, seguiti da una raffica, sparata dal mitra di un tedesco, che andò a vuoto. Cadde a terra. Roscioli riconoscendo l'appartenenza di Adami all'arma di P.S., viste le sue precarie condizioni lo fece trasportare al vicino spaccio di sale e tabacchi, chiedendo alla proprietaria, moglie di Francesco Tondi, il necessario per le medicazioni. Essendone quest'ultima sprovvista, venne medicato alla meglio da un militare tedesco. Adami conosceva Roscioli a causa della sua ferocia che gli aveva fatto guadagnare l'appellativo di “celebre”.
Dopo la medicazione. Roscioli si rivolse allora al ferito, dicendogli: “Volevi fare le scarpe a me? Ma non sai che io sono Roscioli e so sparare bene, lo vedi?”, indicando le ferite. Così egli si assumeva la responsabilità del ferimento. Il feroce squadrista si procurò una coperta per Adami e ne dispose il trasporto all’ospedale di Force. Allo spaccio arrivò Francesco Tondi, proprietario del negozio, accompagnato da un tedesco, che lo aveva trovato nei campi senza documenti. Adami si rivolse anche a lui per essere aiutato. Nel frattempo Mario Mazzocchi, che faceva parte del gruppo dei partigiani catturati in precedenza, riuscì a fuggire ma, una donna del posto, credendo fosse suo figlio, lo chiamò gridando, allertando così due mitraglieri, appostati sul Colle della Croce, che fecero partire delle raffiche colpendo il sambenedettese al polpaccio. Mazzocchi si fermò per arrestare l’emorragia, servendosi della cinta dei pantaloni, ma, raggiunto dai repubblichini e da Roscioli, venne da questi insultato. Mentre si professava orgoglioso di morire per la Patria, Mazzocchi ricevette barbaramente due colpi di pistola alla testa, che lo finirono. Venne seppellito nel cimitero di Portella di Venarotta."...