sabato 9 marzo 2024

80° ANNIVERSARIO DELLA BATTAGLIA DI ROVETINO

CASTEL DI CROCE - MONSANPIETRO

Alle ore 10:00 a Castel di Croce (Rotella) e a Monsampietro (Venarotta) c'è stata la commemorazione della  uccisione, per mano di nazifascisti, di nostri concittadini partigiani, Gino Capriotti, Mario Mazzocchi, Livio Danesin e Antonio Tauro, combattenti appartenenti alla formazione del tenente Paolini, in occasione dell'ottantesimo anniversario della battaglia di Rovetino contro i nazifascisti.
La nostra sezione è stata presente come tutti gli anni. Sono intervenuti i rappresentanti delle istituzioni e le autorità civili, militari e religiose.










   ... " All’alba del 9 marzo 1944 i patrioti si appostarono nel bosco di Rovetino, sul Colle San Severino, nella boscaglia Pierantozzi, a circa 200 metri dalla parrocchiale di Castel di Croce.

Il tempo era avverso, perché la neve continuava a cadere e le bufere erano sempre più intense, compromettendo così la visibilità e le possibilità di spostamento. I patrioti nascosero sotto la neve, sul lato Nord del castello, 135 casse di munizioni per renderne più facile il recupero a fine scontro, a seguito del necessario trasferimento dal centro abitato alla caserma D’Armolatti. Osservando questi preparativi, che prevedevano un attacco nemico, i prigionieri anglo-americani, per non essere coinvolti, si dileguarono. I patrioti erano preoccupati ma pronti, nonostante il fatto che Paolini e Berton fossero febbricitanti.

Paolini, con un drappello formato da quattro uomini fidati, si portò in contrada Croce Rossa per accertare la consistenza delle forze nemiche, rientrando rapidamente alla base, dopo una breve sosta nella casa di Giovanni Gaspari. Dieci minuti dopo due fascisti di Montelparo, qualificatisi patrioti, ma in realtà collaboratori dei tedeschi in avanscoperta, entrarono nella stessa casa al fine di acquisire utili informazioni sulla dislocazione territoriale delle formazioni partigiane. Uno di questi venne riconosciuto perché si era presentato al Gaspari alcuni giorni prima con la stessa motivazione. Chiesero cibo e il Gaspari che non diceva mai no provvide, ma poco dopo la casa fu occupata dal grosso dei nazifascisti con a capo Roscioli che obbligò le donne ad abbandonarla ed il proprietario Giovanni a seguirli. Lungo il sentiero per Rovetino rastrellarono tutti gli uomini incontrati ai quali sottrassero tutto ciò che avevano addosso. A un commerciante, certo Postacchini, venne tolta una somma ingente, destinata a pagare i contadini, per la vendita di semi di erba medica. I fermati, infine, vennero rinchiusi nella chiesetta di Rovetino.

I patrioti avevano ricevuto informazioni su un eventuale attacco dei tedeschi, previsto per le ore 9.00, che non si verificò, per cui ne approfittarono per consolidare le posizioni.

Un maresciallo dei repubblichini, certo Carlo Vaccaro, si presentò al comando di Castel di Croce disarmato con le mani in alto, dichiarandosi pentito, gridò: “Giuro di combattere contro i tedeschi”. A Berton venne il sospetto che si trattasse di spia fascista e, nel timore che potesse creare scompiglio fra i partigiani, lo arrestò, chiudendolo nella prigione con l’agente di pubblica sicurezza Adami e il sedicente comandante dei patrioti, catturati il giorno prima. Alle 10.30, quattro colonne tedesche guidate da fascisti, muniti di armi pesanti ed automatiche, provenienti da direzioni diverse, mossero alla volta di Rovetino.

Accerchiare i patrioti e stringerli in un anello di ferro e di fuoco significava per le truppe tedesche chiudere ogni via di fuga, attraverso le vallate dell’Aso e del Tesino, a cavallo delle quali si erge il bastione naturale di Rovetino. In quei luoghi infatti erano appostati i patrioti.

Una frana enorme sulla provinciale Venarotta-Force, nei pressi di Villa Teodori, bloccò una colonna tedesca di circa 20 automezzi. Per questo ostacolo, che procurò un ritardo di tre ore, il settore di Castel di Croce non fu sorpreso alle spalle. A mala pena i tedeschi raggiunsero Rovetino. Il rombo dei motori che si sentiva dalla contrada Croce Rossa dette l’allarme e gli eroici patrioti si prepararono al combattimento.

Poco prima di mezzogiorno si scatenò l’offensiva con l’evidente obiettivo di accerchiare Rovetino. Le artiglierie tedesche iniziarono a colpire ripetutamente la selva e, con le armi leggere, tentarono di mettere in difficoltà i patrioti, che, nella neve, tra forre e boscaglia, lottarono e si difesero accanitamente, in uno scontro a fuoco della durata di circa tre ore. Paolini inviò una staffetta per chiedere rinforzi a Berton, ordinando il ripiegamento verso Castel di Croce. Il combattimento si inasprì in località “Vigneto”; la formazione si aprì un varco, nel tentativo di sottrarsi alla morsa delle forze nemiche. Furono costretti al ripiegamento per non rischiare la totale distruzione dei reparti e l'esaurimento delle munizioni. Questa manovra fu possibile grazie alla perfetta conoscenza dell’accidentato territorio che consentì alla formazione, con una faticosa marcia, di portarsi a Sud e raggiungere Castel di Croce.

Le sparatorie aumentarono e si spostarono in senso concentrico verso il caposaldo, detto “la Torretta” che è il colle più alto di Rovetino. Alcune granate colpirono i due pagliai della casa colonica D’Angelo, ove erano nascoste le munizioni, che scoppiarono con detonazioni paurose. Berton, per disorientare il nemico, cambiò l’avamposto a Castel di Croce. Invece di puntare su Rovetino, si diresse verso il bosco “Pierantozzi”, dove esisteva una mulattiera coperta e vi piazzò una mitragliatrice; un’altra venne posta nei pressi della chiesa vicino al cimitero. Si continuò a sparare, nel tentativo di accerchiare i tedeschi in zona Poggio Canoso. L' azione, anche se poco efficace, disturbò e disorientò il nemico. Due uomini di Berton, Pino Sebastiani con una mitragliatrice e Livio Danesin, detto “Fulmine” con un fucile mitragliatore, sentendo gli scoppi da Rovetino, da un’ottima postazione, non permisero ai tedeschi di avanzare, sparando fino all’ultima cartuccia e, con le armi in mano, raggiunsero Castel di Croce. Gino Capriotti, che faceva parte di quella formazione, nonostante l’invito dei compagni ad abbandonare la postazione e mettersi in salvo, resistette eroicamente nonostante il fuoco falciante del nemico, con le sue due mitragliatrici: una tedesca e una Breda, che manovrava perfettamente. Fu una valorosa resistenza quella di Gino Capriotti, che, attraverso i suoi spostamenti continui da una postazione all'altra e da un' arma all'altra, riuscì a far credere che fossero in tanti a sparare. Ecco in dettaglio la dinamica dei fatti.

La frana nei pressi di Montemoro costrinse i tedeschi a dirigersi verso il Tesino per raggiungere i posti di accerchiamento. Quando giunsero a destinazione, attaccarono i repubblichini, sopraggiunti nel frattempo, ingannati dal fatto che il fuoco delle mitragliatrici, azionate dal Capriotti, provenivano dalla stessa direzione. Quando si accorsero che si stavano sparando fra loro fu troppo tardi. I repubblichini raggiunta la “Torretta” di Rovetino, si resero conto che quella postazione era controllata da un solo partigiano. Capriotti, ferito dal fuoco tedesco, esaurite le munizioni, con sulle spalle le due mitragliatrici, si diresse verso il bosco, lasciando tracce di sangue sulla neve. Venne presto raggiunto, catturato e malmenato. Quasi morente, nell’aia di D’Angelo detto “Gnelò”, venne sgozzato dai repubblichini, come un tempo si usava fare con i cinghiali; ricevette ben sette colpi di baionetta. Tanta crudeltà e ferocia erano alimentate da sentimenti di odio e vendetta, che portò i fascisti ad agire senza tener conto delle normali convenzioni umanitarie, doverose in tempo di guerra, ma mai applicate in conflitti civili. 

Gino Capriotti, contadino, detto “Gino il rosso” per il colore dei suoi capelli o “Saltamacchia” perché non aveva un posto fisso e vagabondava per i campi, soddisfatto di quella sua vita. Era nato nel 1921 a Petritoli, in contrada Solagna. Era molto affiatato con il tenente Paolini, lo seguiva sempre, era coraggioso, si offriva sempre per le missioni più rischiose, come in quest’ultima circostanza.

Nella notte Paolini rischiò la vita per recuperare la salma abbandonata di Capriotti per dargli degna sepoltura. Era scalzo, non aveva più le scarpe donategli da Don Sante. Capriotti si era sacrificato per i suoi compagni. 

La casa colonica di D’Angelo Luigi, quale base di patrioti, dopo essere stata spogliata di tutto, anche del bestiame, venne data alle fiamme dai fascisti, guidati dal noto Bixio di Montalto, con i familiari chiusi dentro; questi saltarono dalle finestre e si dettero ad una precipitosa fuga. Le cognate Maria Mariani e Rosa Pasqualini furono ferite mentre la figlia di “Gnelò” Carolina fu arrestata e tradotta nelle carceri di Force. Le donne ferite, soccorse dai vicini, adagiate su due scale, a guisa di barella, furono trasferite all’ospedale di Offida. I nazifascisti con rabbia e ferocia bruciarono altre case di contadini, dopo averle saccheggiate. Entrarono anche nella fattoria e nella Villa di De Sgrilli, a Rovetino, minacciando il personale. Portarono via oggetti, generi alimentari e preziosi vari per circa mezzo milione. Roscioli, Vannozzi ed altri erano alla testa dei razziatori.

I nazifascisti cessarono di sparare per caricare sui camion, con delle cariole, i propri caduti, vittime dell'inganno dell'eroico Capriotti. La testimonianza dei trasportatori evidenziò un bilancio di 26 morti e di molti feriti. Lasciarono, con due camion che grondavano sangue, i casolari in fiamme di Rovetino.

Abbandonarono la zona anche per le proibitive condizioni atmosferiche. La tormenta di neve non offriva sufficiente visibilità. I patrioti ne approfittarono per ritirarsi a Castel di Croce, che raggiunsero dopo una faticosa marcia. Il tenente Paolini approfittò di questa tregua per sistemarsi a difesa e per riorganizzare la formazione, ma era ostacolato dalla ferocia e dall’odio di Roscioli, che non dava tregua.

Don Sante venne a sapere, da informatori, che i nazisti sarebbero tornati il 12 mattino presto.

In data 11 marzo 1944, a Castel di Croce, si riunirono i responsabili della formazione Paolini per cercare di evitare rappresaglie e un conseguente massacro di militari e civili. Decisero di sciogliere momentaneamente la formazione, in attesa di tempi migliori e di andare a rinforzare altre formazioni patriottiche. Proseguire la lotta in loco significava solo sacrificare altre vite.

L’ordine fu diramato ai patrioti nel pomeriggio. I locali e lo stesso Paolini restarono sul posto, alcuni si dispersero, altri si accinsero a raggiungere la formazione partigiana di Sarnano, più organizzata e maggiormente operativa. Le armi pesanti non trasferibili e le munizioni vennero nascoste nell’ossario del cimitero, con l’aiuto di Michetti; altre furono sotterrate in una scarpata.

Venne costituito sul posto un tribunale di guerra, formato da patrioti, per giudicare i prigionieri reclusi nella chiesetta di San Severino di Castel di Croce.

Carlo Vaccaro risultò essere un militante della Guardia nazionale repubblichina, di stanza in Ascoli Piceno, era chiamato “il fascista di Morignano“. Aveva rastrellato giovani renitenti ed era considerato settario e violento. Un giorno fu sorpreso in casa del parroco di Morignano a portare via, senza autorizzazione, del formaggio e delle uova. In precedenza aveva legato le mani al parroco per portarlo via. Il prete piangente riuscì a farsi liberare e tornare a casa. Confessò ai patrioti di essere stato mandato tra loro come infiltrato. Riconosciuto delatore, al servizio del nemico, fu condannato a morte. Don Sante, con il prestigio e l’autorità che lo caratterizzavano, riuscì ad evitare l’immediata esecuzione.

Alla sera i superstiti della disciolta formazione Paolini si trovarono in casa Pallotta, da cui si diressero verso Monsampietro, ove giunsero a notte inoltrata.

La probabile esecuzione di Vaccaro (non fu infatti mai trovato il cadavere, dopo la sua scomparsa) avvenne, durante il percorso, in tarda serata, per fatale necessità di sopravvivenza: era di certo più opportuno sacrificare la vita di un traditore piuttosto che quella dell'intera formazione.

O lui o tutti i patrioti, perché durante il tragitto, poteva rappresentare un grave pericolo, il cadavere non fu mai trovato. Gli altri due prigionieri, l’Adami e il sedicente comandante di patrioti, considerati regolari combattenti nemici, seguirono il gruppo.

All’alba del 12 marzo i nazifascisti erano pronti ad attaccare, dopo aver circondato Castel di Croce, con obici e mitragliatrici, artiglierie e autoblindo. L’attacco era atteso come prosecuzione di quello di Rovetino e anche per le notizie avute da Fausto Scaramucci e dal carabiniere Severino Cataldi, informatori di Don Sante e Paolini.

Le colonne nemiche, composte da 60 SS (molti parlavano perfettamente l’italiano), erano guidate da due ufficiali e da Roscioli. I “repubblichini” si divisero in due gruppi: uno, comandato da un ufficiale tedesco, puntò su Castel di Croce, l’altro, comandato da Roscioli, si diresse verso Monsampietro.

La neve era copiosa. I patrioti, parte della disciolta formazione Paolini, a Castel di Croce, nonostante lo scioglimento del gruppo, aiutati dagli abitanti, risposero a lungo all’attacco. Non smisero mai di sparare, pur essendo costretti a fuggire per salvarsi la vita; con molta abilità riuscirono a rompere l'accerchiamento e a disperdersi nella macchia, attorno al monte dell’Ascensione. Per continuare la battaglia servivano uomini vivi, più che eroi.

I tedeschi non dovevano attaccare subito perché attendevano rinforzi. Un cane chiamato “Stalin”, affezionato a Don Sante, fece saltare il loro piano perché si avventò contro uno di loro che stava per sparare al sacerdote. Scoperti, furono costretti ad affrontare i patrioti rimasti.

Il cane, oltre a Don Sante, salvò altri patrioti.

Una donna, durante una perquisizione a Castel di Croce, fingendo di andare a prendere del vino in cantina, corse verso la casa dove un patriota era rifugiato, per avvisarlo che i nazifascisti erano già a Castel di Croce. La madre di questo fortunato giovane era la cuoca dei patrioti. Altre donne si resero utili, medicando feriti e aiutando i ragazzi a riparare in rifugi sicuri, anche a costo della propria vita. Due donne di Castel di Croce Fabiani Domenica e Vagnoni Malvina furono ferite dai tedeschi, proprio perché, nelle loro case, davano ospitalità ai patrioti.

Don Sante, ferito lievemente, insieme a Valentino Grazioli e Giovanni Angelucci, riuscì a dileguarsi, trascinandosi sulla neve con un piede sanguinante. Su indicazione delle spie, i nazifascisti frugarono ovunque, particolarmente nella canonica e nelle abitazioni di Amedeo Antonelli, Bernardo Laurenzi e Lorenzo D’Armolatti. Non trovarono armi e munizioni, ma saccheggiarono qualunque cosa.

I patrioti arrivano a Monsampietro di Venarotta nelle primissime ore, chiesero alloggio, dichiarando di essere fuggiti ed inseguiti dai tedeschi e dai fascisti. Il primo gruppo composto da Paolini, Danesin, Tauro e Muzi si fermarono in casa di Ubaldi, in contrada Collina, gli altri si diressero verso il centro e bussarono a casa di Silvino Tondi che ospitava l’Adami, il sedicente comandante Michetti, Giotto Normussi e Nello Zanni. Asciugarono al fuoco gli abiti bagnati dalla neve, chiesero da mangiare e del latte per il mattino. Berton, Mazzocchi ed altri si sistemarono nelle case del centro. Alberto Michetti, che era un infiltrato, durante il trasferimento da Castel di Croce a Monsampietro, progettò la fuga, ma non trovò l’occasione giusta per realizzarla; all'alba riuscì a fuggire dalla casa di Tondi.

Michetti non sapeva però che suo zio Roscioli era diretto, nel frattempo, a Monsampietro, alla testa di uomini che indossavano tute mimetiche, in dotazione all'esercito tedesco, ma che parlavano un dialetto del Nord Italia. Roscioli, verso le 6.00, nei pressi di Montemoro, incontrò un contadino che, col suo asino, era diretto alla fiera di Montelparo. A lui Roscioli chiese notizie sui patrioti in fuga, braccati dai tedeschi, per poterli aiutare. Il contadino, ingenuamente, lo guidò sul posto, indicandogli le case ove erano rifugiati i partigiani. La frazione venne circondata e subito iniziò il rastrellamento.

Roscioli arrivò alla cascina Ubaldi con autoblindo e artiglieria per catturare i quattro patrioti. Entrò dalla stalla, la cui porta aprì con un colpo di arma da fuoco. Iniziò a sparare all’impazzata, intimando agli occupanti di uscire. Paolini e Muzi si gettarono dalla finestra che dava sui calanchi, gli altri in quella opposta, per dirottare eventuali inseguimenti. Paolini, cadendo sull’abbondante neve, coperto dalla bufera e da un pagliaio, riuscì a passare il blocco e a proseguire la sua fuga verso i calanchi. Muzi fu catturato e torturato, perché riconosciuto dal Roscioli, quale componente la spedizione fatta a casa sua nel febbraio precedente. Roscioli propose ai tedeschi di fucilarlo, ma questi si rifiutarono, in quanto disarmato. Arrestato venne tradotto nelle carceri di Ascoli Piceno dove trovò Giuseppe Tempestilli. Pasquale Ubaldi, che con il figlio Amedeo si trovava nei campi, all’udire gli spari tornò verso casa e, vedendo i tedeschi, nascose il figlio. Arrivato a casa venne arrestato e rinchiuso insieme ai familiari. Roscioli, nel perquisire la casa, trovò Luigi Ubaldi infermo e minorato, che, non potendosi alzare dal letto, venne minacciato di morte. Livio Danesin e Antonio Tauro vennero catturati. Quest'ultimo, già ferito ad una mano ed al torace, ormai in fin di vita, non riuscì a muoversi. Livio Danesin, riconosciuto dal Roscioli, si senti dire: “io sono quello al quale hai svaligiato la casa. Dov’è Paolini?”. Roscioli, non avendo ricevuto risposta, gli mollò uno schiaffone. Il Danesin fu obbligato a scavarsi la fossa, con pala e zappa, aiutato da Pasquale Ubaldi. Tutto accadde alla presenza di tutta la famiglia Ubaldi, compreso un ragazzino di appena 5 anni di nome Luigi, a 50 metri dalla loro casa colonica.

Danesin, scavando, cantava “bandiera rossa” e, quando gl'intimarono di tacere, non avendo più nulla da perdere, si avventò contro il nemico con la pala, ricevendo immediatamente una scarica di mitra. Cadde vicino al corpo del suo compagno Tauro, che era già spirato. Gli aguzzini, accortisi che non era morto, gli spararono altri colpi di pistola al cuore e uno, sempre allegro, ma anche temerario; in combattimento diceva al compagno vicino: “Ma che ti accucci si spara e via. La pallottola per me non è stata ancora fatta”.

Roscioli suggerì ai tedeschi di bruciare la casa di Ubaldi, ma questi si rifiutarono, perché nessuno dei fermati era stato trovato con le armi in mano. Roscioli, allontanatosi, decise di tornare subito indietro, quando venne informato che Danesin era stato sepolto con gli stivali, a lui sottratti, durante la spedizione punitiva del Paolini a Monterinaldo. Non esitò a far riesumare le salme pur di riprendersi gli stivali e i valori che le povere vittime a alla bocca. Fu sepolto con Tauro, nella fossa da lui stesso scavata. Bella persona il Danesinvevano addosso. Fu uno scempio in aperta violazione della Convenzione di Ginevra, ma anche contro il comune sentimento di pietà nei confronti dei defunti.

Si diressero verso l’abitato di Monsampietro. Italo Rafin, che stava portando il latte ai patrioti, a casa di Silvino Tondi, quando vide i militari accelerò la corsa e, nel portare a termine la consegna, dette l'allarme del loro imminente arrivo. Tondi salì per avvisare i patrioti e, mentre stava scendendo, si trovò di fronte i nazifascisti, capeggiati da Roscioli, chiamato dai suoi armati “Mozzè”. Roscioli e i suoi salirono al piano superiore e si fermarono sul pianerottolo della scala, intimando ai rifugiati di scendere. Il primo ad eseguire l'ordine fu Michetti, il quale, nonostante fosse stato avvisato da Mancini dell'arrivo dei militari, non si preoccupò, anzi, appena visto lo zio Roscioli, scambiò con lui poche parole, sottovoce, rimanendo armato.

Michetti era un infiltrato, al servizio della 5° compagnia tedesca. Dai procedimenti penali risulta che Adami, non solo non avrebbe obbedito all’intimazione di alzare le mani, ma avrebbe aggredito Roscioli, per disarmarlo, invitandolo poi a non sparare, qualificandosi un agente di P. S. Nell’azione Roscioli esplose un colpo di pistola, diretto al volto di Adami, che, riparandosi, rimase ferito di striscio ad una mano. Adami tentò di fuggire, ma venne subito raggiunto da due colpi di pistola all’anca, sparati dal Roscioli, seguiti da una raffica, sparata dal mitra di un tedesco, che andò a vuoto. Cadde a terra. Roscioli riconoscendo l'appartenenza di Adami all'arma di P.S., viste le sue precarie condizioni lo fece trasportare al vicino spaccio di sale e tabacchi, chiedendo alla proprietaria, moglie di Francesco Tondi, il necessario per le medicazioni. Essendone quest'ultima sprovvista, venne medicato alla meglio da un militare tedesco. Adami conosceva Roscioli a causa della sua ferocia che gli aveva fatto guadagnare l'appellativo di “celebre”.

Dopo la medicazione. Roscioli si rivolse allora al ferito, dicendogli: “Volevi fare le scarpe a me? Ma non sai che io sono Roscioli e so sparare bene, lo vedi?”, indicando le ferite. Così egli si assumeva la responsabilità del ferimento. Il feroce squadrista si procurò una coperta per Adami e ne dispose il trasporto all’ospedale di Force. Allo spaccio arrivò Francesco Tondi, proprietario del negozio, accompagnato da un tedesco, che lo aveva trovato nei campi senza documenti. Adami si rivolse anche a lui per essere aiutato. Nel frattempo Mario Mazzocchi, che faceva parte del gruppo dei partigiani catturati in precedenza, riuscì a fuggire ma, una donna del posto, credendo fosse suo figlio, lo chiamò gridando, allertando così due mitraglieri, appostati sul Colle della Croce, che fecero partire delle raffiche colpendo il sambenedettese al polpaccio. Mazzocchi si fermò per arrestare l’emorragia, servendosi della cinta dei pantaloni, ma, raggiunto dai repubblichini e da Roscioli, venne da questi insultato. Mentre si professava orgoglioso di morire per la Patria, Mazzocchi ricevette barbaramente due colpi di pistola alla testa, che lo finirono. Venne seppellito nel cimitero di Portella di Venarotta."...


DAL LIBRO DI ELIO TREMAROLI "Cari ragazzi".






sabato 16 dicembre 2023

FOIBE: conoscenza della storia

 








Prof.Tomaso Montanari, rettore dell'Università per gli Stranieri di Siena, DISSERTA SULLA CULTURA E LA FORMAZIONE DEL PENSIERO CRITICO




C’è una voragine nera nella memoria italiana: il lager fascista di Rab. È tempo di chiedere scusa

  Gianfranco Pagliarulo Presidente nazionale ANPI

Sabato 9 settembre ero con altri dirigenti dellAnpi su di una ridente isola della costiera croata, grande poco più di un terzo dellisola dElba e riscaldata da un sole ancora estivo. Quellisola si chiama Rab, in italiano Arbe.

In una località di Rab – Kampor entrò in funzione nel 1942 un campo di concentramento creato dalla II Armata italiana, ai tempi delloccupazione della ex Jugoslavia che si avviò il 6 aprile 1941 attraverso lintervento combinato dellesercito italiano, di quello tedesco e di quello ungherese. Il campo di concentramento ospitò un numero imprecisato di persone, prevalentemente slovene, da 10 a 15mila internati di cui circa 2.000 donne e circa 1.000 bambini. Le condizioni di internamento – percosse, punizioni, malattie, fame – furono tali da determinare la morte di circa 1.500 deportati, forse molti di più. 

I criminali di guerra italiani non sono mai stati puniti. I rappresentanti dello Stato italiano non si sono mai recati in veste istituzionale sullisola, né mai è stata pronunciata una parola di scusa in merito.

Il 9 settembre di questanno, sulla terra dovera stato montato il campo e che aveva inghiottito tante vittime innocenti, si è celebrato l80° anniversario della liberazione del campo, ancora una volta in assenza di autorità istituzionali italiane. 

Erano presenti alcune migliaia di persone – credo circa 3.000 -, molte delle quali provenienti dalla Slovenia. E cera anche un nutrito gruppo di italiani, alcuni organizzati dallo storico Eric Gobetti, altri – due pullman – organizzati dallAnpi del Friuli Venezia Giulia, di Piacenza e di Reggio Emilia.

Hanno parlato il Presidente della Repubblica croata e la Presidente della Repubblica slovena, il sindaco di Arbe, i tre Presidenti delle Associazioni partigiane slovena, croata e italiana, in un clima di commozione, emozione e comunione della gente di tante nazionalità. Ho concluso il mio intervento con queste parole: Senza mai dimenticare cosa avvenne in questisola, nel nome di tutte le vittime, nella denuncia e nella esecrazione dei responsabili, andiamo avanti tenendoci per mano”.

A proposito di Kampor, il generale Gastone Gambara affermò: Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato uguale individuo che sta tranquillo”.

In una apposita circolare il generale Mario Robotti scrisse: Il territorio in cui ci si muove è un campo di battaglia”; tutti devono essere considerati nostri nemici”; non si devono fare prigionieri”. Di conseguenza si ammazza troppo poco”. Nella più famosa circolare del generale darmata Mario Roatta, la circolare 3C emanata il 1° marzo 1942, si leggeva: Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, bensì da quella testa per dente’”. Questa fu la logica della gestione del campo di internamento che può essere ragionevolmente definito un lager.

Eppure in Italia, nel mio Paese, c’è silenzio, un silenzio rumoroso, ipocrita, sacrilego, a protezione e copertura di una mitologia non più presentabile, di una retorica falsa e bugiarda che dal dopoguerra ha minimizzato o nascosto crimini che non sono mai stati puniti: italiani brava gente”. Le indicazioni furono date da Benito Mussolini. Gli esecutori furono molti generali italiani. Dai gas asfissianti in Etiopia, dalla strage di Debra Libano, presso Addis Abeba, dalla deportazione di un intero popolo in Libia fino alle violenze, ai massacri, alle fucilazioni per rappresaglia, agli incendi nella ex Jugoslavia, oggi, grazie alla ricerca storica, appare in tutto il suo orrore la cruda verità dellespansionismo fascista, mai contrastato da Vittorio Emanuele.

C’è un non detto: difendere lonore del Paese. Ecco, nascondendo, omettendo, falsificando, si perde lonore, si umilia la dignità nazionale, si manifesta clamorosamente una debolezza storica. Ricordare perciò gli eccidi delle foibe e la tragedia dellesodo è giusto e doveroso.

Rimuovere gli scenari di sangue e di morte causati dal fascismo in cui si sono collocati e da cui sono stati in parte causati quei drammi è francamente una vergogna nazionale che serve – e quanto è servita! – soltanto alla destra estrema, che dallultimo decennio del 900 ha operato al fine di una progressiva riabilitazione del fascismo e di una continua denigrazione della Resistenza.

Oggi, sotto lombra di un governo che combina lispirazione sovranista” con la più acritica e bellicistica dipendenza dagli Stati Uniti, si espande la voragine nera della memoria nazionale. 

Nel lontano 1920 Mussolini affermò a Pola: Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone”. Il nazionalismo, lespansionismo, la violenza armata come strumento principale della politica, il razzismo, erano e sono lessenza, il cuore del fascismo storico e di qualsiasi fascismo.

Ad Arbe ho ascoltato linno nazionale sloveno e linno nazionale croato. Non linno nazionale italiano. Ad Arbe ho visto sventolare la bandiera croata e la bandiera slovena. Non il Tricolore. Il 7 dicembre 1970 il Cancelliere tedesco Willy Brandt si inginocchiava davanti al monumento alle vittime al Ghetto di Varsavia. In Italia c’è silenzio. Come se non fosse mai successo niente. O, se successo, come se fosse giusto, normale, dovuto. Fascisti di ieri e silenzi di oggi.

È tempo di voltare pagina. È tempo di chiedere perdono.

martedì 12 dicembre 2023

MANIFESTAZIONE PER LA PACE

12 DICEMBRE 2023
MANIFESTAZIONE PER LA PACE, CONTRO TUTTE LE GUERRE
IN PIAZZA GIORGINI A SAN BENEDETTO DEL TRONTO



FERMIAMO LE GUERRE: LA PACE PRIMA DI TUTTO


Questo è il messaggio che l’ANPI, i partiti, i sindacati e le associazioni vogliono inviare alle istituzioni italiane, europee e mondiali affinché si ponga fine a questi orribili stermini.

Ormai è il tempo di convincersi che non esiste più la guerra limitata agli eserciti, ma che qualsiasi guerra colpisce in modo più o meno devastante le popolazioni civili. E tutto ciò sposta obiettivamente i termini della questione, perché la forma della guerra contemporanea è sempre più in sé e per sé criminale. Nel nostro nuovo tempo di terrore senza equilibrio si è parlato e si parla dell’arma atomica come di un’eventualità, certo ultima, improbabile, esecrabile, ma possibile a determinate condizioni. 

Ma l'ANPI grazie alla memoria attiva di stragi di civili in conflitti armati ne è testimone e ne ha la memoria storica, gli italiani sono stati prima carnefici durante le occupazioni coloniali fasciste in Africa, poi nelle invasioni dei Paesi dell’Est Europa al fianco dei nazisti, per divenire vittime di Wermacht ed SS durante la loro ritirata fin da subito dopo lo sbarco alleato, in una mappa dell’orrore che dal Sud al Nord si fece sempre più crescente ed efferato con una violenza su bambini, donne, vecchi e malati sconosciuta ad altre regioni dell’Europa occidentale. L’esperienza del passato vogliamo che incida sulla situazione presente.

Per questo condanniamo l’ignobile e brutale atto di aggressione di Hamas contro la popolazione civile Israeliana, contro anziani, bambini, donne, in spregio di ogni elementare senso di umanità e di civiltà, alla quale si è aggiunta la barbara pratica della presa di ostaggi con l’uccisione di 823 civili e 321 soldati. Non vi è giustificazione alcuna per l’operato di Hamas. Neppure la disperazione e l’esasperazione del popolo Palestinese, vittima da decenni dell’occupazione, della restrizione delle libertà, della demolizione delle case, dell'espropriazione dei terreni e delle continue provocazioni delle frange radicali della destra israeliana e dei coloni può trovare una risposta nell’azione terroristica e militare.

Hamas deve immediatamente rilasciare gli ostaggi e cessare le ostilità per il bene del popolo palestinese.
  Non vi è giustificazione alcuna che Israele abbia reagito con la sua potenza militare contro la popolazione della Striscia di Gaza o usare la rappresaglia togliendo cibo, luce, acqua ad una popolazione ostaggio senza vie di fuga ed impossibilitata a proteggere le famiglie, i bambini e gli anziani.

La nostra condanna contro ogni forma di violenza, di aggressione e di rappresaglia contro la popolazione Palestinese che ha portato alla distruzione di Gaza, alla morte di oltre 14.00 civili tra cui 4.630 bambini e 3.130 donne è assoluta.

Il 7 ottobre segna una radicale svolta militare, di guerra, che porterà nuove vittime e nuovo odio senza risolvere le cause che, da quasi un secolo, travolgono la popolazione e la terra di Palestina e d’Israele. È evidente per di più il rischio imponderabile del conflitto che potrebbe travolgere il Medio Oriente.
  Solo con il rifiuto della guerra e della violenza possiamo tutti impegnarci per costruire giustizia, rispetto per i diritti di autodeterminazione delle due popolazioni, riparazione, convivenza, pace giusta e duratura.
  Ci appelliamo al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite affinché assuma la propria responsabilità di organo garante del diritto internazionale chiedendo alle parti l’immediato cessate il fuoco, il rilascio degli ostaggi e dei prigionieri, il rispetto del diritto umanitario per evitare ulteriore spargimento di sangue, con l’impegno di convocare, con urgenza, una Conferenza di pace che risolva, finalmente, la questione Palestinese applicando la formula dei “due Stati per i due Popoli”, condizione che porrebbe fine all’occupazione Israeliana ed alla resistenza armata Palestinese, ristabilendo così le condizioni per la costruzione di società pacifiche e democratiche. 

L’ANPI insieme ai partiti, alle istituzioni, all’associazionismo democratico, al volontariato, al mondo del lavoro, che hanno aderito alla nostra iniziativa, non vuole restare indifferente a questa disumanità. 

Firmato: Rete Studenti Medi - Associazione Buon Vento- S.O.S. Missionario-CGIL-CISL-UIL-Partito Democratico-Movimento 5 Stelle-Verdi-Articolo Uno-Rifondazione Comunista-Sinistra Italiana-Partito Socialista-NOS.









 

venerdì 28 luglio 2023

PRESENTAZIONE DEL LIBRO "Cari Ragazzi" di Elio Tremaroli






Carissimi,
l'iniziativa di presentazione del libro "Cari ragazzi..." La Resistenza a San Benedetto e lungo la costa adriatica ha visto la partecipazione, malgrado l'inclemenza del tempo, di storici locali, giovani, rappresentanti delle istituzioni e di associazioni culturali e semplici cittadini che hanno avuto modo di conoscere fatti sulla Resistenza a San Benedetto riguardanti il periodo dall'8 Settembre 1943 al 18 giugno 1944 data della liberazione da parte del II Corpo d'Armata dell'esercito polacco guidato dall'allora generale Anders, ai più sconosciuti attraverso riflessioni e contributi di tutti i relatori. Molto apprezzate le proiezioni di interviste di testimoni del tempo che hanno reso attuali quei fatti storici. e  gli interventi del presidente dell'Anpi prof. Antonio Bruni, del prof. Ruggero Ranieri di Sorbello presidente dell'omonima fondazione, dello storico sambenedettese Gino Troli e del prof. Costantino di Sante dell'Università del Molise. E' stata ricordata la figura del partigiano Elio Tremaroli per il suo impegno nella divulgazione di quei fatti soprattutto alle giovani generazioni e del doveroso ricordo di quei partigiani, patrioti e semplici cittadini di San Benedetto che hanno dato la vita per liberarci dalla dittatura fascista e dalla occupazione nazista dell'Italia  e per dare l'avvio ad un periodo, quello del dopoguerra, che doveva lasciarsi alle spalle un passato che aveva visto un Paese sconfitto da una guerra terribile con morti, devastazioni e una città, come San Benedetto da ricostruire perché anch'essa distrutta dai bombardamenti alleati. 

Il Presidente
Prof. Antonio Bruni







TESTIMONIANZE, RACCOLTE DA ELIO TREMAROLI PRESSO LA SEZIONE A.N.P.I. DI SAN GIOVANNI VALDARNO, SULLA FUCILAZIONE DI TRE PARTIGIANI DELLA "BANDA PAOLINI"




Presentazione del libro di Elio Tremaroli

Circolo Nautico


San Benedetto del Tronto  23 giugno 2023


Ruggero Ranieri


Sono molto contento che sia finalmente uscito questo volume di Elio Tremaroli che è stato in gestazione per molti anni. Ormai parecchio tempo fa ne avevo scritto la prefazione oltre a collaborare a sistemare note storiche; rileggendola oggi non ne cambierei nemmeno una virgola. La scrissi con grande riconoscenza e con impegno. Vi racconto la storia del mio incontro con Elio Tremaroli nell’anno 2000 e le nostre mille conversazioni sulla resistenza antifascista di questa regione delle Marche meridionali. 

Oggi vorrei fermarmi su un paio di considerazioni. Innanzitutto vorrei sottolineare il quadro generale che esce da questa ricostruzione di Tremaroli e cioè la caratteristiche della resistenza antifascista a San Benedetto del Tronto e dintorni. Il racconto spesso diventa molto dettagliato e quindi mi limito qui a tracciare alcuni punti molto generali. In sostanza l’attività antifascista si divideva da una parte nell’azione di alcuni gruppi che venivano spesso individuati come “gruppi di combattimento”, non molto numerosi, male armati con mezzi di fortuna e comandati molto spesso da militari italiani che, dopo l’8 settembre, avevano continuato a combattere il nemico tedesco. Sorsero anche nella zona Comitati di liberazione nazionale, per esempio ad Ascoli ma anche a Fermo e a San Benedetto e questi naturalmente erano dominati da figure più politiche, però la resistenza armata si presenta in questo territorio, almeno per tutta una prima fase, particolarmente priva di un forte ancoraggio politico, partitico e quindi anche ideologico. Ci fu, mi sembra, anche una debolezza nel costruire un coordinamento fra le varie bande che si mossero spesso in modo autonomo anche se si tentò di costruire dei comandi sovraordinati. 

Accanto a questa attività dei gruppi di combattimento ve ne era un’altra che ruotava intorno alla presenza nelle campagne di moltissimi prigionieri alleati usciti dai campi di concentramento e dispersi alla macchia. In verità insieme ai prigionieri alleati vi erano altri tipi di rifugiati: ebrei, italiani sbandati e perseguitati ed altri ancora. Le Marche erano diventate quasi un punto di raccolta di questa varia umanità e questo in quanto vi erano nella regione stessa tre campi prigionieri importanti: Servigliano, Sforzacosta e Monte Urano. Inoltre vi confluivano prigionieri evasi dai campi più a nord della Romagna o delle zone appenniniche umbro marchigiane, per esempio da Colfiorito e dalla Val Nerina. 

Queste centinaia, se non migliaia, di prigionieri dovevano essere accuditi ed eventualmente portati in salvo, in quanto la loro massima aspirazione era di raggiungere i loro reparti e comunque il territorio già in mano agli Alleati.

L’operazione di salvataggio dei prigionieri alleati fu organizzata dall’A Force, un reparto specializzato dell’intelligence alleata. Si montarono operazioni via mare e operazioni via terra.

Alle operazioni dell’A Force collaborarono molti elementi patriottici locali o militari antifascisti. Uno di questi fu Elio Tremaroli. Questo tipo di operazione si presta difficilmente a una compiuta ricostruzione in quanto si trattò di una miriade di piccoli episodi, salvataggi, fughe, tradimenti, sbarchi e reimbarchi, operazioni marine ecc. In questo fitto reticolato vi erano alcuni punti fermi e cioè, i presidi e i percorsi organizzati dagli agenti del comando alleato fra cui vi era anche mio padre Uguccione, il quale lavorò spesso a partire da Villa Vinci a Bocca Bianca presso Cupra Marittima. La cosiddetta Rat Line, che nasce nel dicembre 1943, partiva da Villa Stipa presso Appignano. Questa storia è stata raccontata in altre ricostruzioni e memorie, vedi per esempio I diari di Babka di Alessandro Perini uscito nel 2007, e si trova anche in molti testi sulla resistenza nel Piceno a partire da quello di Max Salvadori. Il racconto di Tremaroli vi aggiunge particolari inediti e soprattutto il punto di vista più vicino a quello della popolazione locale, che spesso interagiva con strategie di cui non capiva bene l’intreccio, ma a cui aderiva, almeno molti patrioti aderivano, con passione e forte spirito militante.

Ecco, direi che l’attività antifascista in questo territorio si divise in questi due segmenti che spesso interagivano fra di loro, ma erano in un certo senso distinti. La ricchezza del lavoro di Tremaroli è di immergersi in questo disordine operativo cercando di dare più possibile il senso della battaglia, ricostruendo e raccontando tanti episodi spesso anche piccoli, ma non per questo da dimenticare: episodi di eroismo, di sacrificio, qualche volta anche di tradimento.

A questo punto vorrei fare un discorso sulle fonti del lavoro di Tremaroli. Si tratta di un’intervista e quindi non vi è una precisa indicazione delle fonti usate per ricostruire la trama storica e questo è forse un punto debole, perché molti episodi andranno verificati o riverificati su altre fonti documentarie o a stampa. Io sono convinto, però, avendolo conosciuto abbastanza bene, che le fonti a cui attinse furono tre: una era la sua memoria personale, ovvero la ricostruzione di quello che aveva fatto e che gli era successo; in secondo luogo, una serie di interviste e ricognizioni svolte per ritrovare persone, luoghi e segni di ciò che era successo. Appare chiaro come Tremaroli abbia battuto casa per casa tante di queste zone parlando con moltissimi interlocutori. In terzo luogo egli si era dedicato a un’attività di studio molto intensa nelle biblioteche e negli archivi con i suoi strumenti di ricercatore che aveva dovuto affinare passo passo: aveva letto giornali, libri e verbali di processi. Da tutto ciò, nelle sue risposte alle domande degli studenti emerge un misto di storia, memoria orale e testimonianza personale.

Perché lo fece? Dedicando un’importante parte della sua vita o perlomeno dell’ultima parte della sua vita a questo lavoro? Indubbiamente fu aiutato da alcuni amici che sono stati fra i curatori del volume e particolarmente Antonio Bruno, Giuliano Chiavaroli e anche altri per esempio Annelise Nebbia. Tuttavia va detto che egli mantenne rispetto a tutti questi interlocutori, così a me sembra, una certa distanza: si concedeva, ma si manteneva in qualche modo riservato e indipendente, quasi non si volesse concedere del tutto. Oggi mi sembra di aver capito meglio perché. Questo libro era un po’ un viaggio dentro se stesso: aveva vissuto molti episodi con passione giovanile ma con scarsa consapevolezza; forse aveva sfiorato molte situazioni di cui non capì a fondo, in un primo momento, il valore e l’importanza. Aveva assistito a gesti eroici, a uomini di valore, veri e propri eroi come il tenente Paolini e forse, ma dico forse, non li aveva subito completamente compresi. E allora, a un certo punto della sua vita, c’è voluto tornare per capire meglio se stesso e gli episodi che aveva vissuto. Questo libro, quindi, è una specie di commedia della propria vita, in cui vuole lodare e premiare gli amici e condannare quelli che aveva visto compiere il male. Questo viaggio si deve fare da soli perché non tocca solo la storia ma anche l’intima coscienza.  Ecco, questo secondo me spiega il suo riserbo insieme alla sua grande volontà di comunicare e la sua grande vivacità e cordialità. Un misto singolare, ma a ben pensarci abbastanza profondo. 

Un ultimo aspetto che vorrei sottolineare è come, proprio per quanto ho detto, mentre alcuni personaggi vengono descritti con toni quasi eroici, un po’ retorici, come nella prima letteratura post bellica sulla Resistenza, nel racconto di altri, spesso legati al mondo contadino, il tono si fa più amichevole, vengono raccontate le loro tribolazioni, la difficoltà di sbarcare il lunario, le decisioni difficili che dovettero prendere, vengono ricordati anche i loro nomignoli in dialetto. Questo è un aspetto direi quasi di storia sociale che traspare in varie parti del libro.

Infine, ultima cosa, l’orgoglio, che Elio sentiva molto ma di cui parlava poco, di portare San Benedetto alla ribalta di una vicenda resistenziale. Mi ricordo che era sempre un po’ insoddisfatto dei testi storici che leggeva perché, secondo lui, parlavano troppo poco della propria città.


Ruggero Ranieri





RECENSIONE di Antonella Roncarolo 


Titolo: "Cari ragazzi..." di Elio Tremaroli 


Editore: Antonio Bruni, Presidente della sezione Anpi di San Benedetto del Tronto e Vice Presidente del comitato provinciale di Ascoli Piceno 



"Cari ragazzi..." libro del compianto partigiano Elio Tremaroli scomparso il 31/05/2008 rappresenta una pietra miliare nell'ambito della letteratura di memoria storica locale, illuminando con una prospettiva unica la Resistenza a San Benedetto del Tronto e sulle coste dell'Adriatico. 

Tremaroli, che non è uno storico di formazione, in questo libro, fortemente voluto dalla sezione ANPI di San Benedetto del Tronto, si rivela tuttavia un testimone straordinario, riuscendo ad amalgamare un'accurata ricostruzione cronologica con una narrazione vivida ed emotiva. Il suo stile di scrittura, sebbene semplice, è imbevuto di una profonda sensibilità, non offrendo il testo una semplice sequenza di fatti asciutti, bensì ricamando una trama complessa di memorie, echi di voci e storie di coraggio e resistenza, citando centinaia di nomi, luoghi e date. 

L'approccio è quello dell'intervistato, del testimone che rievoca e che traccia un percorso preciso attraverso i meandri della storia. In questo modo, Tremaroli riesce ad infondere nei suoi lettori un senso di partecipazione attiva, trascinandoli nelle trame intricate della Resistenza, attraverso una miriade di dettagli che animano i personaggi e i luoghi, rendendoli tangibili, reali. Si ha quasi l'impressione di camminare sulle stesse strade, di sentire gli stessi timori e speranze, di respirare la stessa aria densa di attesa e lotta.

C'è un certo rispetto per la memoria che permea ogni pagina del libro e, nonostante l'elenco impressionante di nomi, luoghi e date, non ci si perde mai nel testo, perché ogni dettaglio è incastonato nel racconto come un prezioso tassello di un mosaico più grande. Questa attenzione scrupolosa al dettaglio, combinata con una narrazione coinvolgente, fa di "Cari ragazzi..." un lavoro eccezionalmente vivido e memorabile.

La storia della Resistenza è certamente un tema gravoso, ma Tremaroli riesce a gestirlo con una delicatezza e un rispetto che rendono il suo libro un'opera indispensabile per chiunque sia interessato alla storia locale di San Benedetto del Tronto e delle coste dell'Adriatico. Allo stesso tempo, "Cari ragazzi..." è un promemoria universale del valore del coraggio, della resistenza e dell'umanità in tempi di guerra. Le figure che emergono dal racconto sono delineate con una vividezza straordinaria: non sono solo nomi su una pagina, ma personaggi reali, palpabili, che prendono vita tra le parole dell'autore. 

Solo alcuni nomi, tra i tanti citati nel testo: il sottotenente Gian Maria Paolini, fondatore della banda Paolini e poi tragicamente fucilato dai fascisti, viene ritratto come un eroe della Resistenza, la sua determinazione e il suo sacrificio rendono il suo personaggio indimenticabile. 

Il tenente Carlo Alberto Della Chiesa, dopo l’8 Settembre 1943 comandante della stazione dei carabinieri di San Benedetto del Tronto, altro protagonista di questo intricato scacchiere di resistenza, emerge come figura di grande forza morale, la sua vicenda personale incorniciata nel contesto più ampio della lotta contro l'oppressione.

Un accenno particolare merita il racconto dei marescialli dei carabinieri Luciano Nardone e Isaia Ceci, che con coraggio e abnegazione vengono descritti mentre sacrificano la propria vita per difendere i magazzini di viveri destinati alla città, trucidati dai nazisti. L'eco delle loro gesta risuona lungo tutto il libro, simbolo del coraggio e dell'altruismo che la Resistenza ha rappresentato.

Le figure del Comandante Nebbia e di Uguccione Ranieri, infine, vengono ritratte con un misto di rispetto e ammirazione, incarnando l'indomito spirito di resistenza che animava tanti in quel periodo oscuro.

"Cari ragazzi..." è dunque un libro che celebra gli eroi noti e meno noti della Resistenza, riportandoli in vita attraverso la penna di un testimone diretto. Un'opera che, attraverso la narrazione di queste vicende personali, contribuisce a mantenere viva la memoria di un periodo che ha segnato in modo indelebile la storia del nostro Paese.

Tuttavia il resoconto di Tremaroli non si ferma alla narrazione delle figure eroiche, raccontando anche i fatti tragici avvenuti a San Benedetto del Tronto dal 8 settembre 1943 fino alla liberazione e trasportando il lettore nel cuore oscuro di quegli anni.

Gli episodi sanguinosi alla stazione nel settembre 1943 sono resi con un realismo disarmante: soldati tedeschi che lanciano bombe a mano contro innocenti bambini in cerca di pane, scene di orrore e disperazione che si imprimono nella memoria del lettore. L’autore riesce a dar voce a questi momenti di terribile brutalità con un tono che, pur essendo misurato, non nasconde l'orribile realtà di quegli eventi.

Il libro narra inoltre dei bombardamenti delle forze alleate, presentando un'immagine vivida e terribilmente realistica del caos e della devastazione che questi eventi hanno causato. 


Ma "Cari ragazzi..." non è solo un libro di guerra e distruzione. Allo stesso tempo, Tremaroli offre uno sguardo autentico sulla vita quotidiana e sulla sopravvivenza dei sambenedettesi in quel periodo. Racconta storie di coraggio, di determinazione, di resistenza quotidiana, ma anche di semplici gesti di solidarietà e di umanità. In questo contesto, anche i piccoli atti quotidiani assumono un significato profondo, diventando simboli di resistenza e di speranza.

Un ulteriore elemento di rilievo nel libro di Elio Tremaroli è l'importante ruolo delle donne nella Resistenza locale. L'autore rende giustizia alla presenza femminile, sottolineando che, sebbene le donne sambenedettesi non fossero armate come nel Nord, il loro contributo fu comunque di vitale importanza. Tremaroli racconta con profonda sensibilità le storie di queste donne coraggiose, che con gesti di accoglienza, di cibo caldo, di cura dei partigiani, sfollati e prigionieri alleati sbandati dopo l'8 settembre, contribuirono alla Resistenza in maniera cruciale. Queste donne, spesso dimenticate dalle narrazioni ufficiali, emergono nelle pagine del libro come eroine silenziose, la cui determinazione e coraggio costituirono un supporto fondamentale per la lotta alla tirannia.

Le figure delle staffette partigiane, che svolsero un ruolo cruciale, fungendo da collegamento tra le diverse cellule di resistenza, rischiando la vita per consegnare messaggi e informazioni vitali in particolare, sono tratteggiate con grande rispetto e ammirazione, il loro coraggio e la loro abnegazione sono ritratti in modo vivido e commovente.

La notte tra il 18 e il 19 giugno 1944 segnò la liberazione di San Benedetto del Tronto da parte delle truppe del secondo corpo d'armata polacco. Questo evento cruciale pose fine all'occupazione tedesca nella città poiché l'avanzata delle truppe polacche, ben organizzate e determinate, ha consentito il ritorno alla normalità e alla libertà per i cittadini di San Benedetto del Tronto. Tuttavia, anche se in ritirata, l'esercito tedesco rimase una forza ben organizzata, come dimostrato nelle successive fasi del conflitto. 

Questo contesto fornisce un importante sfondo storico al libro di Elio Tremaroli, e alla Resistenza italiana nel suo complesso e la città non ha dimenticato chi ha combattuto ed è morto per la libertà. 

Nel 2022, il Sindaco Antonio Spazzafumo ha inaugurato una targa sulla strada statale in onore del secondo corpo d'armata polacco, come ricordo della loro impresa liberatrice. Inoltre, nel centro della città, alcune strade furono intitolate nell’immediato dopoguerra ai partigiani, come ulteriore tributo a coloro che hanno resistito all'oppressione e hanno dato il loro contributo alla causa. Questi gesti non solo onorano il passato, ma servono anche come promemoria costante dell'importanza dei valori di resistenza e libertà. 

Durante la presentazione alla cittadinanza, il curatore del libro Antonio Bruni ha sottolineato l'importante ruolo della Resistenza. Anche se non dotata della stessa forza militare degli eserciti alleati, la Resistenza ha svolto un ruolo chiave nel plasmare l'Italia del dopoguerra, piantando i semi che avrebbero portato alla nascita della Costituzione Italiana.

In conclusione dell’evento, è seguito un momento di grande rilievo: sono stati proiettati una serie di interviste curate dal Dott. Giuliano Chiavaroli, Vice Presidente della sezione ANPI di San Benedetto del Tronto. Tali interviste, realizzate con maestria da Elio Tremaroli, hanno reso vivo e tangibile il ricordo dei testimoni del tempo, offrendo un prezioso contributo alla serata.


"Cari ragazzi..." è un libro che racconta di eroismo e sacrificio, ma anche di speranza. È una testimonianza preziosa di un periodo storico cruciale, raccontata con autenticità e sensibilità da un testimone oculare di quelle vicende. Grazie a Tremaroli, queste storie non verranno dimenticate, ma continueranno a vivere nelle pagine del suo libro, a educare le generazioni future e a ricordarci il valore del coraggio e della resistenza.


Antonella Roncarolo

80° ANNIVERSARIO DELLA BATTAGLIA DI ROVETINO

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